Imporre un «tetto» al numero di incarichi va contro la qualità dei collegi
Caro Direttore,
leggo i continui interventi sul cumulo degli incarichi nei collegi sindacali e, ogni volta, trasalisco (si veda “Cumulo degli incarichi sindacali: «soglia di criticità» più severa del previsto?” del 25 febbraio scorso).
Se non erro, chi esercita la professione ha accettato a priori che le valutazioni sulle proprie capacità professionali le farà la clientela. Quindi non capisco come possa porsi il problema di “tutelare i giovani” mettendo limiti di incarichi sui collegi sindacali. È una logica non corporativa, ma social-comunista che fa a pugni con la “libera professione”.
Non capisco, poi, perché il tema dovrebbe porsi per i collegi sindacali, e non anche per gli altri incarichi. Come se la consulenza fiscale potesse essere prestata senza limiti e con scarsa qualità, mentre i collegi sindacali no.
Non capisco perché un professionista che ha dedicato la vita a guadagnarsi la fiducia della clientela, poco alla volta, investendo il proprio tempo in attività di sviluppo, debba poi subire limiti introdotti dopo aver sostenuto i costi dello sviluppo, impedendogli di raccoglierne i risultati.
Non capisco perché i revisori non abbiano limiti sul numero di incarichi – né chiedano di averli – mentre noi ci proponiamo di farlo.
Non capisco perché i chirurghi, che pure fanno un mestiere delicatissimo, non abbiano limiti sul numero di operazioni che possono eseguire né chiedano di averli, mentre noi ci proponiamo di farlo.
Non capisco perché io (47 anni), dopo aver “subìto” questo supposto danno da parte degli anziani che non avevano limiti sul numero di incarichi e che mi hanno “rubato” il lavoro, mi ritrovi, alle soglie del momento in cui dovrei raccogliere il frutto di questa situazione, a dover subire l’opposto danno con questa limitazione. È forse una colpa essere nato nel 1963?
E c’è un altro tema ancor più importante. E forse più serio.
È finita da un decennio l’epoca del collegio sindacale “rendita”. Ora il mercato della consulenza in generale richiede specifiche competenze professionali. Questo vale per la consulenza aziendale, per quella fiscale (con ulteriori sottospecializzazioni su IVA, registro, dirette nazionali, dirette internazionali, etc.), bilancio, contrattuale, e così via.
Specializzazione vuol dire rinuncia a svolgere alcune attività professionali a favore di altre.
E come si può pensare di favorire la specializzazione mettendo un limite allo svolgimento dell’attività su cui ci si è specializzati?
Per quanto tempo si ritiene che l’incarico di sindaco possa seriamente essere svolto da chi “lo fa a tempo perso” per arrotondare, mentre si è specializzato su altro?
Anzi, direi che, proprio nel caso degli incarichi di sindaco con revisione contabile, emerge sempre di più la necessità di avere una struttura dedicata a ciò. Non si può più pensare che un collegio con revisione possa seriamente svolgere il proprio compito con tre colleghi di tre studi diversi che, quando si incontrano con i vertici aziendali, chiedono “c’è qualcosa che non va?”. No. Quel collegio non farà mai una revisione. Serve un’organizzazione che faccia della revisione il proprio mestiere. E quella organizzazione non si formerà mai mettendo un limite al numero di incarichi.
Se si insiste con questa politica, finiremo per fare il nostro danno, perché qualcuno prima o poi si accorgerà che una revisione non fatta come si deve non serve a nulla.
Giampiero Guarnerio
Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Milano