Sul pubblico impiego si sbaglia nell’approccio prima che nel merito
Sullo spinoso tema della parificazione tra dipendenti pubblici e privati, rispetto alla disciplina dei licenziamenti, il Ministro della Funzione Pubblica Patroni Griffi non lascia, raddoppia.
Dopo le polemiche dei giorni scorsi tutte interne al Governo, con il Ministro del Lavoro e delle Pari Opportunità, Elsa Fornero, apertamente favorevole alla piena parificazione, Patroni Griffi ha scritto una lettera aperta al Corriere della Sera, reo di aver dato spazio a giudizi ritenuti sferzanti sulla sua presunta eccessiva sensibilità alle posizioni dei sindacati del pubblico impiego. Una lettera in cui il Ministro si fa vanto di non essere alla ricerca di consensi e vi è da credervi, perché la lettera trasuda a tratti una supponenza che ne rende scarsamente digeribili pure quei passaggi che potrebbero, invece, meritare condivisione.
Proviamo però tutti a raccogliere l’invito del Ministro a mettere da parte la ricerca di facile consenso e a ragionare, allora, in modo spietatamente oggettivo, a costo di essere impopolari.
Se ci proviamo davvero, ecco che il punto non è nemmeno più quello della parificazione tra dipendenti pubblici e privati in materia di licenziamento: il punto è che nel settore pubblico un contratto di lavoro a tempo indeterminato non dovrebbe esistere per definizione.
Chi è che si può arrogare il diritto di attribuire a qualcuno “per sempre” un posto di lavoro che è per definizione pubblico?
Poco conta se ci si entra per concorso: un posto di lavoro che è pubblico (non di un datore di lavoro privato) dovrebbe comunque essere periodicamente messo in gioco (dieci anni?), attraverso concorsi volti a verificare se altri aspiranti hanno più titoli e capacità di coloro che lo stanno ricoprendo, al più con l’attribuzione di un maggiore punteggio a chi già lo ricopre con valutazioni positive in termini disciplinari e di efficienza.
Ragionamento che è tanto più pregnante oggi che il pubblico ha smesso di assumere e davvero non si capisce perché chi è fuori non possa aspirare a subentrare, se ha più meriti di chi c’è già.
La tanto invocata meritocrazia non può funzionare e non funzionerà mai in un sistema fondato sulla regola del “chi c’è, c’è”. La meritocrazia implica necessariamente la disponibilità ad accettare che l’ascensore sociale possa anche scendere, oltre che salire, affidando allo Stato il compito di evitare soltanto che la discesa possa portare addirittura i cittadini ai piani sotto terra. Equità non significa rendere un cittadino proprietario di un posto di lavoro che, in quanto pubblico, non può essergli assegnato sine die; significa invece prevedere ammortizzatori sociali che lo accompagnino quando perde il lavoro, perché viene licenziato o scade il suo contratto, in attesa che riesca a ricollocarsi.
Tutto questo non certo per dire che, da un giorno all’altro, si debba arrivare a mutamenti di scenario così drastici e socialmente insostenibili, ma per sottolineare ai tanti Patroni Griffi di questo Paese che, evidentemente, non l’hanno ancora capito, come lo Stato non possa essere una sorta di franchigia rispetto alla crisi e come le cose discutibili (nel senso tecnico di suscettibili di discussione, senza tabù e preclusioni), con riguardo al rapporto di lavoro nel pubblico impiego, siano molte e anche molto più dirompenti di quelle che affiorano oggi nella discussione politica e sociale.
Che la strada da percorrere sia ancora molta, nonostante il tempo a disposizione sia sempre meno, lo certifica del resto proprio un passaggio della lettera del Ministro – da cui abbiamo preso spunto per queste riflessioni – che mirava in realtà a dare dimostrazione di un suo approccio tutt’altro che sindacale sul tema del pubblico impiego.
Scrive, infatti, Patroni Griffi: “I doveri disciplinari dei [dipendenti] pubblici sono più forti di quelli dei privati e il pubblico che sbaglia deve pagare di più del privato perché ha tradito la fiducia dei cittadini non solo del suo datore”.
Un lapsus freudiano da manuale, rispetto a quello che voleva probabilmente essere il senso della chiusura della frase: la fiducia dei cittadini che sono il suo datore di lavoro. Il datore di lavoro dei dipendenti pubblici, infatti, sono proprio i cittadini, non lo Stato che ne è la mera espressione organizzata.
È, invece, proprio questa concezione dello Stato come entità sovraordinata e autonoma, che accomuna larga parte di coloro che hanno passato molto tempo della propria vita in posizioni apicali all’interno delle istituzioni, ad aver ingenerato il folle squilibrio tra pubblico e privato che sta oggi contribuendo in modo determinante ad affossare il Paese e che sta completando la trasformazione dei cittadini in sudditi.
O mutiamo la marea o ne saremo presto sommersi. Twitter@enrico_zanetti