La verità dei numeri contro gli incantesimi da pre-campagna elettorale
L’avvio della campagna elettorale, senza ancora le regole che la caratterizzano, consente in questi giorni comizi che si svolgono non soltanto senza contradditorio contestuale, ma pure senza bilanciamento differito. In questo modo, chiunque può sparare le baggianate più infondate e sperare pure che si sedimentino nelle convinzioni degli Italiani.
Alcuni pochi e semplici numeri possono però costituire il miglior antidoto alle venefiche pozioni che navigati incantatori di serpenti cercano per l’ennesima volta di propinare a tutti noi.
Tra il 2000 e il 2006, la spesa pubblica al netto degli interessi passivi (ossia senza considerare il costo del debito, in quanto costo delle “non scelte” pregresse) è passata da 475 a 662 miliardi di euro: un incremento nominale di 187 miliardi di euro che, tradotto in termini reali, equivale a un inguardabile, irresponsabile e devastante aumento in termini reali di 115 (+21,22%).
Abbiamo fatto pena nella Prima Repubblica e abbiamo fatto molto meno bene di quel che si racconta e di quel che avremmo potuto fare negli anni tra il 1993 e il 2000, ma è nel quinquennio 2001-2006 che abbiamo riportato l’Italia sull’orlo del baratro, con un micidiale mix di politiche ultra-stataliste sul lato della spesa e pseudo-liberiste sul lato delle entrate (“pseudo”, perché finanziate essenzialmente a colpi di condoni fiscali).
Dal 2006 in avanti, la folle cavalcata della spesa pubblica è stata interrotta, ma non riassorbita.
Anzi, l’aumento della spesa in termini reali sul 2011 rispetto al 2000 è cresciuto ancora di un poco, sino a 124 miliardi di euro.
Nel biennio a cavallo del 2006-2008, il Governo di centrosinistra ha parzialmente riequilibrato i conti nel modo più semplice e ad esso più congeniale: alzando le entrate. La pressione fiscale è infatti passata dal 40,08% del 2005 al 42,65% del 2008. E questo nonostante non vi fossero decisioni da assumere da un giorno per l’altro e vi fossero invece tutti i mesi necessari per pianificare una politica meno ideologica e miope, ma soprattutto finalizzata a far crescere il Paese e non solo a difendere lo Stato.
Dal 2008 al 2011, reinsediatosi il Governo di centrodestra, si è assistito al sostanziale mantenimento sia del livello di spesa che loro stessi avevano inopinatamente esploso nel corso della loro precedente esperienza, sia del livello di pressione fiscale improvvidamente utilizzato come unica possibile risposta dal governo immediatamente precedente.
L’esplosione della crisi ha rapidamente portato all’inevitabile incrinatura di un bilancio pubblico fondato su troppa spesa e troppe tasse, imponendo un ulteriore e frettoloso rientro dal deficit, reso tanto più oneroso in termini di sacrifici a causa dell’incremento del costo del debito (dai 70 miliardi di euro annui del periodo tra il 2001 e il 2006, oggi bisogna infatti confrontarsi con un costo di 90 miliardi).
Di nuovo, la risposta è stata l’aumento della pressione fiscale e di nuovo l’aumento è stato di circa 2,5 punti percentuali: dal 42,50% del 2011 al 44,72% del 2012, per salire ulteriormente al 45,26% sul 2013.
Un aumento meno scellerato di quello operato nel 2006-2008 dal Governo di centrosinistra, solo se valutato dal punto di vista del Governo tecnico chiamato al capezzale dello Stato e costretto a decidere da un giorno per l’altro; altrettanto scellerato, invece, se valutato dal punto di vista del Governo di centrodestra uscente, il quale aveva avuto, proprio come il Governo che lo aveva preceduto, due anni a propria disposizione per capire che era ora e tempo di avviare una revisione della spesa e, meglio ancora, una revisione dello Stato.
Peraltro, i numeri delle manovre varate nel corso del 2011, dall’estate di Berlusconi-Tremonti al dicembre di Monti, evidenziano come il 76% di quegli aumenti di pressione fiscale sia riconducibile alle scelte tardivamente operate dal Governo di centrodestra uscente e solo l’ulteriore 24% a quelle frettolosamente aggiunte dal Governo tecnico entrante.
Al Governo tecnico va inoltre riconosciuto di aver avviato nel corso del 2012, seppure in modo troppo timido, un percorso di rientro da quell’abnorme aumento della spesa pubblica generatosi negli anni successivi al 2000: in proiezione 2015, le spending review sin qui varate hanno infatti ridotto quell’aumento a 110 miliardi, rispetto ai 124 di cui si è fatto cenno che si registravano sul 2011.
Molto c’è quindi da fare, ma il punto di partenza non può essere l’abolizione dell’IMU sulla prima casa o la detassazione delle tredicesime, peraltro ponendo in contropartita altre tasse sui consumi e sui giochi o, peggio ancora, gli introiti derivanti dalla lotta all’evasione fiscale.
Questi ultimi, in particolare, devono smettere di essere utilizzati come maggiori entrate per lo Stato con cui coprire una spesa che non si vuole ridurre, come sempre hanno fatto in questi anni sia i Governi di centrosinistra che quelli di centrodestra. Se è da queste cose che partiremo, nella migliore logica di chi pone come suo orizzonte prospettico il solo risultato elettorale e il proprio bacino di voti, invece che il futuro del Paese, avremo nella migliore delle ipotesi tredicesime detassate, ma più nessuna impresa che le eroga; prime case detassate, ma Italiani che potranno solo che restarsene a casa.
Il punto di partenza deve essere la revisione dello Stato, per poter avere una vera revisione della spesa, per poter avere risorse adeguate da reinvestire prioritariamente nella riduzione della pressione fiscale sulle imprese con prevalente componente di lavoro, per far ripartire l’economia e, infine, per avere risorse ulteriori con cui ridurre anche altre tasse inique. Tutte cose che è inutile aspettarsi da chi non si sogna nemmeno di declamarle, perché genuinamente convinto della necessità di non ridurre la spesa e ridimensionare l’apparato pubblico, ma neppure da chi, pur avendole a lungo declamate, ha fatto l’esatto contrario e ha contribuito in modo determinante a portarci ove oggi ci troviamo.
(twitter @enrico_zanetti)