Lavoro, previdenza e fisco fanno dei giovani «cittadini di serie B»
Il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha come da tradizione toccato moltissime tematiche, ma è indubbio che ha avuto come filo conduttore principale quello del disagio giovanile. È auspicabile che la scelta non sia stata dettata dal fatto puramente incidentale di un incontro avuto pochi giorni prima con i rappresentanti del movimento studentesco che protesta contro la riforma dell’Università; non fosse altro perché, delle tante proteste giovanili, questa appare senza dubbio come la meno trasversale, la più strumentalizzata e, in definitiva, la meno condivisa tra i giovani stessi.
Il fatto, però, che in questo Paese esista un’importante “questione giovani” è sotto gli occhi di tutti.
Il punto non è l’età della classe dirigente del Paese, perché non è una questione di posti e di proteste finalizzate all’arrivismo: il punto è l’oggettiva iniquità che caratterizza l’attuale assetto dei diritti tra generazioni.
Lo scorso dicembre, in occasione del II Forum dei giovani liberi professionisti, l’Unione giovani dottori commercialisti ed esperti contabili aveva ben preconizzato il discorso del Presidente della Repubblica, soffermandosi in particolare sulle problematiche del lavoro, della previdenza e del fisco, in quanto temi socio-economici con i quali i commercialisti italiani hanno un certo grado di confidenza e di riconosciuta competenza, ma ancor più in quanto temi che mettono oltremodo in evidenza come il Paese in cui viviamo non sia una comunità nazionale, ma una grande, decadente caserma. Una caserma dove l’unico principio che non viene mai derogato è quello del “chi c’è, c’è” e dove si applica il più sistematico e il più spietato nonnismo nei confronti di chi ha come unica colpa, tra l’altro non emendabile, di essere arrivato dopo: i giovani, appunto.
Pensiamo ai contratti nazionali di lavoro. Presentano rigidità e tutele non più compatibili con il nuovo assetto economico mondiale risultante a seguito della globalizzazione? Chi se ne frega: si lotta comunque allo stremo per difendere anche il minimo diritto di chi è già nel recinto e si lasciano i nuovi arrivati in balìa di se stessi.
E la previdenza? Per definizione, in questo ambito, anche quando si attuano riforme, lo si fa lasciando il conto da pagare ai giovani.
E il fisco? Sembra fatto apposta per premiare chi già possiede e penalizzare chi, come i giovani, possiede invece solo la sua voglia di lavorare e produrre, creando magari lavoro anche per altri.
C’è purtroppo un filo rosso tra questi tre diversi ambiti che, in modo sicuramente involontario, ma non per questo meno evidente, traccia la linea di demarcazione tra i cittadini di serie A, coloro che avevano trenta o quarant’anni negli anni ’70 o ’80, e i cittadini di serie B, quelli che hanno trenta o quarant’anni adesso.
Prendiamo il cittadino di serie A.
Ha mosso i suoi primi passi in un sistema in cui trovare un lavoro era sicuramente non automatico, ma quando accadeva significava avere una ragionevole prospettiva di stabilità; se invece provava la via della libera professione, aveva davanti a sé anni di impegno e grandi sacrifici, ma anche una ragionevole prospettiva di raggiungere una vera autonomia.
Ha maturato, sempre il cittadino di serie A, trattamenti previdenziali slegati dalla sua contribuzione effettiva e agganciati ai ben più generosi metodi di calcolo che considerano le ultime retribuzioni, lasciando ad altri – ai giovani di oggi – il piacevole compito di metterci la differenza.
Ha infine conseguito i propri redditi – sempre il cittadino di serie A – in un contesto in cui il fisco li discriminava qualitativamente, favorendo però quelli di lavoro; e in un contesto in cui, diciamolo, l’evasione fiscale era ben più dilagante di quanto non lo sia oggi, che pure non scherza. In questo modo, tra l’altro, il cittadino di serie A è pure riuscito a risparmiare più di quanto non sia possibile oggi, a parità di livello di reddito.
Prendiamo ora il cittadino di serie B, cioè i giovani di oggi.
Muove i suoi primi passi – e probabilmente anche i suoi secondi e i suoi terzi – in un sistema in cui trovare lavoro non solo è difficile, ma quasi sempre, quando vi si riesce, è anche illusorio e comunque precario; se invece prova la via della libera professione, ora come allora ha davanti a sé anni di impegno e grandi sacrifici, ma con la beffa che il risultato finale nella grandissima maggioranza dei casi non sarà quello di una vera autonomia, bensì quello di una diversa forma di precarietà: la precarietà con la partita IVA.
I trattamenti previdenziali, il cittadino di serie B li matura ancorati alla sua misera e discontinua contribuzione effettiva: giusto, non fosse che vive con il tarlo del dubbio che non vedrà nemmeno quelli, perché intanto i suoi contributi servono a pagare le pensioni di chi gli ha scaricato addosso il debito previdenziale latente e lo guarda dall’alto del suo diritto acquisito: se il banco dovesse saltare, è per lui che salterà.
I suoi redditi, il cittadino di serie B li consegue in un contesto in cui il fisco discrimina ancora, ma questa volta all’incontrario, tassando molto di più quelli di lavoro e produzione e molto di meno quelli di derivazione patrimoniale.
In questo modo, il cittadino di serie B, quando non ha direttamente il problema della sopravvivenza, fa pure più fatica a risparmiare: proprio lui che, avendo futuri trattamenti pensionistici assai meno generosi, avrebbe maggiore bisogno di quel risparmio.
Serie A e serie B; per i nostri figli la serie C, poi resta soltanto il campionato nazionale dilettanti ed ecco che forse saremo arrivati al livello della classe dirigente di questo Paese.
Non è qualunquismo o rottamismo. Essere leader, essere classe dirigente significa per l’appunto dirigere. Ammesso e non concesso che in questi anni ci si sia mossi non a caso, ma seguendo una direzione tracciata, non è certo una direzione verso l’alto, bensì, per l’appunto, verso serie sempre inferiori.
Se poi i giovani saranno soltanto capaci di piangersi addosso, mal gliene incolga; ma cominciamo con l’ammettere che il quadro attuale è questo: la consapevolezza è sempre il primo passo verso la soluzione.
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