Quote «rosa»: tutti d’accordo sui principi, ma all’atto pratico i posti non si mollano
Caro Direttore,
mi fa piacere che tu sia tornato, nell’editoriale di lunedì scorso (si veda “Quote di genere in CdA e collegi sindacali? Sì, però...” del 21 febbraio 2011) a parlare di quote di genere.
E ancora di più mi fa piacere che reputi positivo che il nostro Consiglio nazionale si sia caratterizzato ancora una volta per una posizione di apertura al ricambio e all’innovazione e improntata al riconoscimento del merito.
È infatti il momento in cui si passa dalle discussioni accademiche ai fatti concreti quello in cui si verifica quanto genuine fossero, o non fossero, talune posizioni fintamente illuminate, assunte da alcuni soggetti.
Certo, nei salotti nessuno è disposto a negare che in Italia, nelle società quotate, non vi sia un’adeguata rappresentanza femminile all’interno dei board e dei collegi sindacali.
Nei salotti nessuno è disposto a confutare quanto asserito dal Servizio Studi del Senato nel commentare il Ddl. n. 2482, e cioè che i modelli di gestione manageriali basati sulla professionalità adottati dalle società quotate non sono comunque bastati per “renderle più aperte ad una selezione del personale dirigente fondata su criteri schiettamente meritocratici, con l’impiego dei quali la presenza delle donne nei board direttivi avrebbe sicuramente e spontaneamente raggiunto criteri di equilibrio rispetto a quella maschile”
E allo stesso modo, se nei salotti si discute della moral suasion operata dalla Unione Europea nei confronti dell’Italia, fanalino di coda nel campo delle pari opportunità, o del riconoscimento da parte della Corte Costituzionale della correttezza di azioni positive tendenti ad attuare concretamente il dovere dello Stato di realizzare quell’uguaglianza sostanziale fissata dall’art. 3 della Costituzione, tutti a parole si dicono d’accordo.
Ma quando si deve votare un disegno di legge che per tre mandati consecutivi – cioè giusto il tempo per scardinare una rendita di posizione esistente, e non per sostituirla con una nuova – preveda un criterio di riparto degli amministratori e dei sindaci che tenti di assicurare un relativo equilibrio tra i generi (30% al genere meno rappresentato), allora le cose cambiano.
Allora non stiamo più amabilmente discutendo di futuribili e poetiche idee rosa, stiamo parlando più prosaicamente di un migliaio di uomini che potrebbero, a breve, perdere il posto nella stanza dei bottoni.
E magari non riacquistarlo più, al termine del periodo transitorio, perché potrebbe essere che qualcuno decida di tenersi le donne anche se non ci sia più un obbligo di legge.
E così i senatori del Pdl, oggi (ieri, ndr), hanno dato parere contrario in Commissione Giustizia del Senato al documento del Pd in cui si esprime parere favorevole al Ddl. 2482 sulle c.d. “quote rosa” nei board e nei collegi sindacali delle società quotate e in quelle a controllo pubblico.
Ovviamente, sottolineando che il parere è negativo “malgrado il principio a fondamento del Ddl. sia meritevole di tutela”: siamo alle solite, i principi vanno bene, ma i posti non si mollano!
Infine, il direttore mi permetta un ultimo appunto: si faceva, nell’editoriale citato, una correlazione, a mio sommesso avviso spuria, tra due posizioni del Consiglio Nazionale: una che chiedeva una legge per introdurre un limite inderogabile (30%), ancorché temporaneo, per le “quote rosa” e una che adottava un principio di comportamento, per i sindaci, che viceversa non prevedeva limiti inderogabili al cumulo degli incarichi.
È vero, qui il limite proposto non è inderogabile, ma è un limite. Se lo superano, i colleghi dovranno andare davanti ai Consigli degli Ordini locali e durante un procedimento disciplinare giustificare i motivi che rendono, in una particolare situazione soggettiva e/o oggettiva, derogabile il limite di 20 incarichi.
Nel (defunto?) Ddl. sulle “quote rosa”, la società che avesse voluto non rispettare il limite del 30% di donne nei board e nei collegi sindacali avrebbe solo potuto usare una motivazione: non ci sono abbastanza donne preparate professionalmente e attrezzate culturalmente per poter ricoprire quei ruoli.
E questa giustificazione, a mio avviso, non è accettabile, semplicemente perché è falsa.
Le donne sono più del 50% della popolazione, si laureano di più e con voti migliori rispetto agli uomini, sono ormai ampiamente presenti nel mondo del lavoro: per quanto tempo ancora vogliamo privarci dei loro meriti e dei loro talenti anche nelle cariche direttive delle società quotate?
Caro Direttore, spero che tra 10 anni, quando forse qualcuno ripresenterà il prossimo Ddl. sulle quote, non dirai più “Sì, però …”, ma vorrai anche tu dire “Sì, senza se e senza ma” come il nostro Consiglio nazionale ha avuto il coraggio di fare. E di questo lo ringrazio di cuore, a nome di tanti colleghi, uomini e donne.
Giulia Pusterla
Consigliere nazionale del CNDCEC con delega alle pari opportunità
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