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EDITORIALE

Più evasione con omonimie tra commercialisti? Per favore: pietà

/ Enrico ZANETTI

Sabato, 25 giugno 2011

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Dinastie professionali”: questo il titolo di un convegno organizzato dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti che si terrà il prossimo 4 luglio a Milano, presso l’Università Bocconi, con la partecipazione, tra gli altri, del Ministro Angelino Alfano, del segretario del PD Pierluigi Bersani, del prof. Mario Monti e del prof. Tito Boeri. Proprio un intervento “di lancio” da parte di quest’ultimo, alcuni giorni fa su Repubblica, aiuta a capire in anticipo dove si vuole andare a parare e qual è il messaggio che si vuole lanciare: uno dei principali problemi dell’Italia è quello mancate liberalizzazioni, colpa dell’immobilismo dell’attuale Governo. Sin qui difficile non essere d’accordo.

Deludente però il paradigma esemplificativo prescelto: quello delle libere professioni.
Deludente anzitutto per il modo qualunquistico con cui viene sviluppato, laddove si afferma che, per colpa della inadeguatezza dell’azione del Governo, gli Ordini professionali hanno opposto resistenze alla liberalizzazione della pubblicità e all’abolizione delle tariffe minime. Peccato che, nel codice deontologico degli iscritti all’Albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, entrambe le questioni siano già state risolte ormai da anni. Sul fatto che molti Ordini professionali abbiano un approccio a dir poco medioevale al confronto con il resto del Paese, non ci piove.

Se però, proprio al fine di evitare di fare nomi e cognomi, assumendosene le relative responsabilità, si sceglie sempre di affrontare l’argomento delle libere professioni facendo di ogni erba un fascio, ecco allora che l’unico risultato che si può ottenere è quello di portare ad un appiattimento verso i comportamenti meno virtuosi e retrogradi. Che senso ha, infatti, cercare di andare oltre alla mera difesa trita e ritrita dell’esistente, anche quando è di fatto ormai indifendibile, se poi nessuno ti riconosce il punto? Senza contare che, prima ancora di concentrarsi su questioni come pubblicità e tariffe minime, bisognerebbe avere il coraggio di affrontare quello che, se si ragiona in un’ottica di libero mercato, dovrebbe essere il tema dei temi: il numero chiuso.

Ebbene, in un Paese in cui commercialisti e avvocati, tanto per fare degli esempi, si contano nel numero delle centinaia di migliaia, ci si accorgerà, alla fine della fiera, che le uniche professioni intellettuali a numero chiuso sono quelle del notaio e del farmacista. Magari è giusto che sia così, anche se, soprattutto con riguardo al caso dei farmacisti, è oggigiorno a dir poco misterioso il motivo.
Sta di fatto però che, al di fuori di questi due ambiti professionali, parlare di mancanza di libero mercato, per l’esercizio di una professione intellettuale in Italia, significa volersi pervicacemente mettere a fissare il dito che indica la luna, anziché la luna stessa.
Ed è proprio per questo che, al di fuori di questi due ambiti professionali, sentir parlare di “dinastie professionali” fa veramente accapponare la pelle. Per “dinastie professionali” si intende infatti il fenomeno della prosecuzione, da parte dei figli, degli studi professionali avviati dai padri.

Premesso che chi scrive non è figlio d’arte, trovo veramente assurdo che in questo Paese si facciano addirittura agevolazioni fiscali per cercare di favorire il passaggio generazionale dell’impresa, mentre quando la prosecuzione dell’attività di padre in figlio riguarda uno studio professionale, si parli allora di “dinastie” che uccidono la meritocrazia e la concorrenza.
È ovvio che chi si ritrova con un padre che ha uno studio professionale già avviato è avvantaggiato rispetto a chi, come anche il sottoscritto, è partito da zero; ma questo non vale forse anche per gli imprenditori, ivi comprese, a puro titolo esemplificativo, le attuali generazioni di De Benedetti, la cui fondazione, intitolata al padre dell’attuale “capofamiglia”, promuove il convegno da cui siamo partiti per queste nostre riflessioni?

Se c’è il numero chiuso, il ragionamento cambia ed è comprensibilissimo che le successioni vengano allora viste come “dinastie”, ma il punto è: lo sanno i politici e i professori universitari che, farmacisti e notai a parte, tutte le altre professioni presentano numeri di iscritti che sono purtroppo persino esuberanti rispetto alle capacità di assorbimento di quello stesso libero mercato di cui parlano? No che non lo sanno, evidentemente. La generalità dei politici continua a vedere i liberi professionisti, senza distinzioni, come un’unica casta di privilegiati: da vezzeggiare e blandire secondo il “metodo finto buonista” del centrodestra; da aggredire e distruggere secondo il “credo statalista” del centrosinistra. Taluni professori universitari, a loro volta, si prestano ad avvalorare simili anacronismi con tanto di corredo di studi e valutazioni di impatto (nel suo articolo sulla prima pagina di Repubblica, il prof. Tito Boeri è persino riuscito a scrivere che “ad esempio, nelle province dove le omonimie incidono maggiormente sulle iscrizioni all’albo dei commercialisti l’evasione fiscale è più alta”: eccezionale!).

Quegli uni e quegli altri sono indietro come minimo di vent’anni e vorrebbero, rispettivamente, guidare il Paese e formare le prossime generazioni: un lusso che non possiamo più permetterci.

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