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Domenica, 4 maggio 2025

LETTERE

L’indagine finanziaria non dev’essere uno strumento di applicazione automatica

Martedì, 7 maggio 2013

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Egregio Direttore,
talvolta può capitare che, complice l’isterismo legislativo cui purtroppo siamo abituati, sfugga alla nostra attenzione un arguto provvedimento, una suadente circolare ministeriale o, addirittura, un nuovo e nequitoso istituto deflattivo del contenzioso.
Così, lo riconosco, non mi ero reso conto dell’esistenza, nel nostro sistema fiscale, dell’istituto del “patteggiamento tributario”, celato sotto il mimetismo sincretistico dell’accertamento con adesione e, cosa peggiore, della sua aberrazione data dal tentativo di induzione al predetto istituto.

Mi spiego. Nell’ambito degli accertamenti fiscali derivanti da indagini finanziarie (già bancarie), l’art. 32, comma 1, n. 2 del DPR 600/73 prevede che gli uffici possono “invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti (...)”; da un punto di vista letterale, la locuzione lascerebbe presagire che non vi sia, in capo all’Ufficio, alcun obbligo nell’instaurazione del contraddittorio preventivo, bensì una mera facoltà.

Preme evidenziare, però, che il suddetto articolo stabilisce altresì che “i dati ed elementi (...) sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti (...) se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine”. Condividendo appieno il parere di autorevole dottrina, l’enunciato normativo sembra, pertanto, limitare la possibilità di utilizzo dei dati e degli elementi raccolti, secondo la logica delle presunzioni legali, solo al caso in cui – dal punto di vista procedimentale – sia stato attivato il contradditorio preventivo.

Il filo logico appare perfetto e costituzionalmente orientato. Il legislatore sembra, infatti, voler dire che, di fronte ad una serie assai corposa e considerevole di dati e di informazioni di natura finanziaria, gli Uffici devono prima ascoltare le dimostrazioni e le giustificazioni del contribuente in contraddittorio e poi emettere l’avviso di accertamento, il quale a quel punto risulterà – per effetto del confronto istruito preventivamente – evidentemente scremato e meno invasivo. L’effetto del mancato rispetto della fase endoprocedimentale dovrebbe consistere nel degradare delle presunzioni utilizzabili dagli Uffici da legali a semplici.

Il condizionale è d’obbligo, poiché sia l’Agenzia, nei propri documenti di prassi, al netto dell’apertura contenuta nella circolare 32/2006, sia buona parte della giurisprudenza, purtroppo anche di legittimità, ritengono l’istruttoria preventiva in parola assolutamente facoltativa e non ostativa, pur in sua assenza, all’utilizzo delle presunzioni legali.
In particolare, la Cassazione ha più volte evidenziato che la ratio della procedura in esame risiede in esigenze di economia delle procedure, in quanto anticipa alla fase delle attività istruttorie del controllo la possibilità che il contribuente eserciti la facoltà di prova, attività, quest’ultima, che comunque resta impregiudicata in sede contenziosa.

Sarei curioso di sapere se la Cassazione è ancora di ugual parere. Perché? Semplice.
È normale che un contribuente, potendo sin dall’inizio con proprie motivate giustificazioni arginare l’entità di un avviso di accertamento “spannometrico”, si debba vedere addebitato, invece, un atto preconfezionato, automatizzato con un “clic” e di portata assai spesso devastante? È giusto che la logica debba essere quella del “tanto quello che mi puoi dimostrare prima, me lo puoi dimostrare tranquillamente dopo”? Siamo così convinti che ci sia tutta questa serenità, anche alla luce della disciplina dei nuovi accertamenti esecutivi?
Nella pratica professionale, è facile constatare che il contribuente si ritrova, nella necessaria fase successiva della richiesta di accertamento con adesione, in una situazione di perniciosa e notevole sudditanza psicologica nei confronti degli Uffici, specie dal momento in cui gli avvisi di accertamento sono diventati atti immediatamente esecutivi.

È di tutta evidenza che generare un avviso di accertamento illegittimamente opulento finisce per sfibrare il diritto di difesa del contribuente, il quale, per non vedersi addebitare 100, si trova, suo malgrado, a dover accettare comunque 20, anche solo per non dover subire l’esecuzione forzata, decorsi almeno 270 giorni dalla notifica dell’atto e nell’eventualità in cui il giudice di merito dovesse rigettare l’istanza di sospensione, o per usufruire delle sanzioni ridotte o, ancora, per non essere percosso dall’alea del giudizio.

Mi sembra che questa impostazione sia penalizzante sotto almeno quattro aspetti, ovvero in relazione ai diritti costituzionali del contribuente, allo Statuto del Contribuente, all’istituto del contraddittorio in generale – nonché al suo inquadramento nell’ambito del diritto comunitario – e alla visione assai più illuminata della Cassazione relativamente alla valenza del contraddittorio negli accertamenti da studi di settore.
Atteso che modifiche legislative non è il momento per poterle chiedere, o forse sì (?), possiamo però di sicuro incitare gli Uffici dell’Agenzia delle Entrate al rigoroso rispetto di quanto già espresso nella circolare 32/2006, ovvero che l’indagine “prima solamente bancaria e ora più in generale finanziaria, pur realizzando un’importante attività istruttoria, non costituisce uno strumento di applicazione automatica”.

Adottando questa sensibilità, la sacrosanta lotta all’evasione dismette la maschera dell’ottusa ferocia e assume contorni, forse, più umanizzati. Parola di giovani commercialisti utili (si spera) al Paese.


Marco Cramarossa
Presidente UGDCEC di Bari e Trani

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