Il progresso tecnologico imposto per legge non è progresso
Spettabile Redazione,
condivido totalmente l’editoriale di Giancarlo Allione (si veda “Costruire il nostro patibolo o governare la fattura elettronica?” del 10 novembre 2017).
Pongo una domanda in più: in cosa consiste il progresso tecnologico?
A casa mia, il progresso tecnologico – ivi incluso quello digitale – è tale se si impone da solo sul mercato.
Invece il progresso “imposto per legge” non è un progresso, ma una “prestazione personale” imposta al destinatario obbligato a fare qualcosa che altrimenti non farebbe. Questione regolata dall’art. 23 della Costituzione, che non a caso mette sullo stesso piano le prestazioni personali e quelle patrimoniali.
L’esempio che mi viene in mente è quello dei telefonini: nessuna legge ha imposto l’utilizzo dei cellulari. Anzi: alcuni Paesi (l’Italia in testa) hanno fatto di tutto per limitarne la diffusione applicando una retrograda tassazione (la tassa di concessione governativa) senza però riuscirci. Si sono diffusi. Come le lavatrici.
Dunque, mi chiedo, come mai alcune amenità informatiche come l’utilizzo della firma digitale, della PEC, e della fattura digitale vengono introdotte per legge e non conoscono alcuna diffusione (salvo limitate eccezioni) nel mondo reale?
Quanta gente utilizza la PEC e/o la firma digitale abitualmente? Quanti amministratori sanno di averla? Quanta gente sta correndo rischi che nemmeno conosce?
E, soprattutto, perché all’estero – e intendo in tutto il mondo estero, anche quello informaticamente all’avanguardia – tali strumenti sono pressoché sconosciuti o inutilizzati?
Credo che la questione vada esaminata in termini filosofici e materiali.
I computer – che in italiano si chiamano “elaboratori elettronici” – sono una grande conquista dell’umanità per lo scopo per cui sono nati: ovvero per elaborare informazioni e fare simulazioni, calcoli di complessità incredibile e fino a poco tempo fa di impensabile ideazione. Ma sono strutturalmente, e direi anche filosoficamente, inadatti a dare certezze: qualsiasi informazione digitale è alterabile. È solo questione di capacità di calcolo.
Non a caso la sicurezza informatica esiste solo nelle definizioni, ma è impossibile da garantire: si violano sistematicamente anche gli archivi più riservati del mondo...
Tutti noi sappiamo quanto fallace sia qualsiasi strumento di protezione informatica: basti pensare alle pratiche camerali che per la legge (e per le Camere di commercio) sono certamente firmate dai titolari delle firme digitali, mentre nella realtà (quando va bene) sono firmate alla presenza del titolare da qualcuno che dispone del software necessario per la bisogna.
Insomma: oggi come oggi pretendere dai file informatici una validità certa è come chiedere a una palla di non rotolare.
Da qui la mia filosofica avversità a queste introduzioni forzate.
Un conto è cavalcare l’onda del progresso, facilitarlo, stimolarlo: ben venga una maggiore diffusione dell’informatica anche nella documentazione delle transazioni commerciali. Non ho alcuna remora al riguardo, purché ci si renda conto che tali strumenti non garantiscono certezze assolute, ma soltanto relative.
Come è il caso delle PEC: dopo 30 mesi i gestori possono cancellare gli archivi dei messaggi scambiati, dequalificando così le PEC a email ordinarie.
Altro è imporlo quando nessuno, o pochissimi, la stanno impiegando, e soprattutto pensare di imporlo autarchicamente a prescindere: come gestiremo le fatture che riceviamo dai fornitori stranieri – che saranno di carta? Cosa spediremo loro, che non si aspettano una fattura digitale? Avremo doppie fatture: digitali per noi e cartacee per loro?
Giampiero Guarnerio
Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Milano
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