Con ordinanza n. 11154 del 28 aprile 2025 la Cassazione ha avuto modo di ribadire come lo svolgimento di altre attività da parte del lavoratore assente per malattia possa assumere un rilievo disciplinare in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà; ciò, anche quando l’attività svolta, valutata in relazione alla natura e alle caratteristiche dell’infermità nonché alle mansioni esercitate nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore. Il caso di specie originava dal ricorso presentato da un lavoratore che lamentava l’illegittimità del licenziamento a lui irrogato per avere svolto, durante l’assenza per malattia, attività ludiche, esponendosi così al rischio di peggiorare le proprie condizioni di salute. La Corte d’Appello, confermando quanto affermato dal giudice di prime cure, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, ritenendo sussistente una sproporzione tra sanzione e infrazione disciplinare, con conseguente applicazione dell’art. 18 comma 5 della L. 300/70. In particolare, il giudice di merito aveva accertato che le numerose attività compiute dal lavoratore, senza l’utilizzo di qualsivoglia protezione al braccio – il cui infortunio aveva determinato l’assenza per malattia – avevano in effetti esposto a rischio di peggioramento le condizioni di salute dello stesso; ciò, anche in considerazione, da un lato, delle prescrizioni mediche che indicavano il riposo e l’immobilizzazione dell’arto e, dall’altro, della diagnosi ricevuta. A fronte di tali premesse, tuttavia, la Corte d’Appello giungeva comunque a dichiarare il licenziamento illegittimo, rilevando come il datore non avesse fornito la prova del concreto aggravamento della malattia derivante dalla “disinvolta e pericolosa” condotta del lavoratore. Avverso tale pronuncia, affidandosi ad un solo motivo, proponeva ricorso in Cassazione la datrice di lavoro, specificando come, in realtà, il giudice di seconde cure avesse errato nel ritenere sproporzionata la sanzione del licenziamento, in quanto il lavoratore aveva posto in essere, nel periodo di malattia, condotte che potevano comunque ledere i suoi interessi. La Suprema Corte, investita della controversia, accoglie tale motivo. I giudici di legittimità premettono come, in costanza di assenza per malattia, nel nostro ordinamento non vi sia un divieto assoluto, imposto ai lavoratori, di svolgere altre attività, ancorché a favore di terzi; dunque, ciò non costituisce, di per sé, inadempimento degli obblighi imposti al prestatore d’opera. Tuttavia, come precisato da un orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità – ed evocato nella pronuncia in commento (cfr. Cass. nn. 15621/2001, 6047/2018, 13063/2022) –, il compimento di altre attività da parte del dipendente assente per malattia può assumere rilievo disciplinare, potendo giustificare finanche la sanzione del licenziamento, nel momento in cui vengano violati i doveri di correttezza e buona fede, nonché gli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà. Va, infatti, considerato, prosegue la Cassazione, che durante il periodo di sospensione del rapporto in caso di malattia, permangono in capo al lavoratore tutti gli obblighi non inerenti allo svolgimento della prestazione e, in particolare, gli obblighi di diligenza e fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c., nonché gli obblighi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. Dunque, nel caso di specie, non può che assumere rilievo la violazione, da parte del lavoratore, di tutte le cautele atte a permettere un’effettiva guarigione, ivi comprese quelle terapeutiche e di riposo prescritte dal medico. Ciò detto, concludono i giudici di legittimità, la valutazione del giudice di merito, con riferimento all’incidenza sulla guarigione dell’attività ludica svolta dal lavoratore – e accertata nel merito –, deve realizzarsi sulla base di un giudizio condotto ex ante, riferito cioè al momento in cui il comportamento contestato si è tenuto, avendo ad oggetto la potenzialità del pregiudizio, con la conseguenza che, ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante. Nel caso di specie, i giudici di merito avevano effettivamente accertato che le attività svolte dal lavoratore erano tali da determinare – potenzialmente – un peggioramento delle condizioni di salute del lavoratore, anche in considerazione delle menzionate prescrizioni mediche. Ed è proprio in tale accertamento che si situerebbe, secondo i giudici di legittimità, l’erroneità della pronuncia impugnata, nell’aver cioè statuito che il datore avesse assolto all’onere della prova su di lui incombente – circa l’idoneità potenziale della diversa attività a pregiudicare il rientro in servizio – e, ciononostante, nell’aver ritenuto insussistente una giusta causa di licenziamento.
30 aprile 2025
/ Federico ANDREOZZI