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Senza giusta causa si paga anche la revoca dell’amministratore di nomina pubblica

Il Tribunale di Venezia riconosce all’amministratore revocato dall’ente pubblico di maggioranza l’intero compenso per il periodo residuo

/ Maurizio MEOLI

Lunedì, 15 dicembre 2025

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Il Tribunale di Venezia, nella sentenza n. 3603/2024, ha stabilito che, ai fini della revoca di un amministratore di una società a partecipazione pubblica, la giusta causa può consistere in fatti che minino il pactum fiduciae a condizione che siano oggettivamente valutabili come capaci di mettere in forse la sua correttezza e le sue attitudini gestionali, e non costituiscano, invece, il mero inadempimento di una inesistente soggezione alle direttive del socio di maggioranza, nonostante si tratti di un ente pubblico.

Si ricorda, innanzitutto, che, ove anche il socio ente pubblico abbia nominato un amministratore ex art. 2449 c.c. – secondo una norma statutaria che gli riconosca questo diritto di nomina diretta – gli amministratori così nominati hanno i diritti e gli obblighi dei membri nominati dall’assemblea, tanto che sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario le controversie relative alla loro revoca (cfr. Cass. SS.UU. n. 4413/2024).

Tali indicazioni rilevano – a maggior ragione – nel caso di nomina assembleare degli amministratori di società pubbliche, anche qualora siano stati previsti, tramite accordi parasociali, meccanismi elettivi atti ad imputare la designazione di uno o più amministratori a specifici soci.

Rispetto a tali profili, la decisione in commento sottolinea come la società sia retta solo dalla legge e dallo statuto, e non da patti diversi, seppure stipulati fra i soci, allo stesso modo di quanto accade per i diritti e i doveri dei consiglieri.
Ciò si riflette sia sugli obblighi di buona, prudente e professionale gestione, da svolgere nell’interesse della società, e tenendo conto delle decisioni dei soci che siano espresse nelle sedi e nelle forme proprie delle società, che sui diritti derivanti dal regime legale e statutario delle revoche.

L’amministratore è, quindi, obbligato a porre in essere tutte le iniziative opportune affinché la società operi correttamente e proficuamente (anche partecipando alle decisioni dell’organo gestorio relative al conferimento, alla revoca o alla sospensione delle deleghe conferite ai singoli consiglieri).

A fronte di ciò, l’esistenza della giusta causa di revoca è da valutarsi alla luce dei principi generali, secondo i quali non occorre che l’amministratore revocato abbia commesso violazioni dei suoi doveri gestori, ma è pur sempre necessario che sussistano circostanze o fatti idonei ad influire sulla opportunità di proseguire nel rapporto perché tali da incidere negativamente sull’affidamento inizialmente riposto sulle proprie attitudini e capacità.

Deve trattarsi di fatti oggettivamente valutabili ai fini in questione. Se, infatti, alla base della revoca si colloca il venire meno del rapporto di fiducia con l’amministratore, tale esito non può fondarsi su considerazioni meramente soggettive dei soci.

Inoltre, può non sussistere giusta causa di revoca quando l’amministratore riconducibile all’ente pubblico socio di maggioranza tiene un comportamento che, seppure difforme rispetto alle direttive di questo, risulti coerente con regole di prudenza e di buona gestione.

Alla mancanza di giusta causa di revoca consegue, poi, il diritto a ottenere il ristoro del danno patrimoniale subito; danno che, a giudizio del Tribunale di Venezia, è da far coincidere con l’importo degli emolumenti che gli sarebbero spettati per il periodo residuo di carica (emolumenti che, nella specie, venivano documentati tramite la produzione della delibera assembleare di nomina in cui erano stati determinati).

Quest’ultima precisazione appare conforme ad altri precedenti giurisprudenziali (cfr. Cass. n. 2037/2018 e Trib. Bologna n. 2788/2017). La Corte d’Appello di Milano, peraltro, in una decisione del 6 aprile 2001, attinente ad un caso in cui all’amministratore sarebbero spettate ancora dodici mensilità dei compensi originariamente riconosciuti, ha ritenuto ragionevole la corresponsione di sole sei mensilità; considerando sei mesi un periodo di tempo idoneo a consentire all’amministratore di instaurare altro rapporto professionale di non minore prestigio e redditività.

Si osserva, infine, come la citata sentenza n. 2037/2018 della Cassazione abbia anche sottolineato che alla responsabilità contrattuale ex art. 2383 c.c., relativa al lucro cessante per i compensi residui non percepiti e derivante dal fatto stesso del recesso senza giusta causa dal rapporto di amministrazione, potrebbe aggiungersi la responsabilità, sempre di natura contrattuale, per la violazione delle regole di buona fede e correttezza, oppure una responsabilità extracontrattuale della società, o di soggetti in concorso con essa, solo in presenza di condotte che costituiscano un quid pluris, diverso ed ulteriore, rispetto alla revoca in sé; come potrebbe accadere quando le stesse ragioni esternate della revoca, in luogo che essere semplicemente insussistenti o inidonee a fondare il potere di recesso, oppure le concrete modalità della cessazione del rapporto, connotate da colpa o dolo, siano tali da ledere un diritto della persona.

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