Nella liquidazione volontaria di srl utili all’usufruttuario
/ Anita MAURO e Maurizio MEOLI
Alcune sentenze della Cassazione (Cass. nn. 11152, 11170 e 11357 del 2024) hanno fornito un’interpretazione peculiare in tema di quote societarie detenute in usufrutto. In particolare, si sono domandate a chi debbano essere imputati i redditi derivanti dalla liquidazione di una srl, con riferimento alle quote su cui era costituito un diritto di usufrutto. La conclusione raggiunta dalla Suprema Corte è enunciata nel seguente principio di diritto: “nel caso in cui la quota sociale di una società a responsabilità limitata sia costituita in usufrutto, le somme ricavate dalla liquidazione volontaria della società, costituenti un utile per la parte che eccede il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione delle quote, spettano all’usufruttuario, con la conseguenza che il rapporto d’imposta avente ad oggetto tale utile sorge, ad ogni effetto, tra l’amministrazione e l’usufruttuario”. Le vicende esaminate dalle pronunce sono quasi identiche: i nudi proprietari di alcune quote di srl (gravate da usufrutto) si ritenevano legittimati a dichiarare l’utile da liquidazione (determinato come differenza tra le somme percepite, o il valore dei beni assegnati, e il costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione) e, quindi, tenuti ad adempiere gli obblighi fiscali scaturenti dalla liquidazione volontaria della società. La soluzione, contestata dall’Agenzia delle Entrate, giunge di fronte alla Cassazione, che, confermando l’impostazione dei giudici di merito, nega la titolarità dei redditi in capo ai nudi proprietari. Per risolvere la questione, la Corte ritiene necessario rispondere a due quesiti:
- “quando cessi il diritto di usufrutto che abbia ad oggetto una partecipazione sociale di una” srl;
- “quali siano i diritti patrimoniali, collegati alla partecipazione sociale, spettanti al soggetto in favore del quale sia stato costituito un usufrutto sulla stessa”. Con riferimento alla prima questione, la Cassazione rileva come l’art. 2352 c.c. (richiamato, per la srl, dall’art. 2471-bis c.c.) non contenga alcuna indicazione sulle cause di estinzione dell’usufrutto su partecipazioni. Trattandosi però di disposizioni speciali rispetto alle norme generali sull’usufrutto, ove non forniscano indicazioni necessarie per regolare le fattispecie, occorre tornare a servirsi delle norme generali. Pertanto, in assenza di una disposizione ad hoc che disciplini l’estinzione del diritto di usufrutto su partecipazioni sociali, trova applicazione l’art. 1014 c.c., dal quale si desume che l’usufrutto su partecipazione: non cessa con la messa in liquidazione della società; cessa, oltre che in caso di morte dell’usufruttuario persona fisica, “per il totale perimento della cosa su cui è costituito”. Quindi, posto che la partecipazione di srl “non viene meno (non «perisce», per usare il termine normativo) con la liquidazione volontaria della società, bensì con la cancellazione di quest’ultima dal registro delle imprese, che ne determina l’estinzione”, se ne desume che l’usufrutto della partecipazione resta in vita anche dopo la liquidazione della società. Passando, invece, ai diritti dell’usufruttuario, la Suprema Corte afferma che “non vi è alcuna norma che limiti l’estensione oggettiva dei diritti dell’usufruttuario ai dividendi che si sia deciso di distribuire durante la vita «ordinaria» (prima della messa in liquidazione) della società”. Ne deriva che i diritti dell’usufruttuario della partecipazione non sono limitati ai dividendi: gli competono tutti i frutti civili della quota, finché l’usufrutto resta in vita. Quindi, avendo accertato che il diritto reale di usufrutto resta in vita anche dopo la liquidazione, la Corte si chiede se “anche dopo la messa in liquidazione della società la partecipazione sociale possa produrre utili”. La risposta affermativa della Cassazione si fonda su una norma dell’ordinamento tributario, ovvero l’art. 47 comma 7 del TUIR, ai sensi del quale “le somme o il valore normale dei beni ricevuti dai soci in caso di [...] liquidazione anche concorsuale delle società ed enti costituiscono «utile» per la parte che eccede il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione delle azioni o quote annullate”. Da questa diposizione si desume che, “quando si tratta di determinare il reddito imponibile di un socio di società di capitali, deve essere considerata anche la quota di patrimonio netto attribuitagli risultante dalla liquidazione, nella misura prevista dal citato comma 7 dell’art. 47”. Posto però che queste attribuzioni configurano “utile”, spettano all’usufruttuario, a cui competono tutti i frutti civili della partecipazione. Quindi, dato che la differenza tra la somma spettante in caso di liquidazione e il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione della quota costituisce “un «reddito», cioè un frutto civile della partecipazione sociale”, in presenza di usufrutto quel reddito spetta all’usufruttuario e non al socio. [CATENACCIO] Il ragionamento della Cassazione presenta elementi di criticità. In primo luogo, non si può non notare come l’art. 47 comma 7 del TUIR faccia riferimento al socio come soggetto cui si imputano i redditi da liquidazione della quota. E il “socio”, anche in presenza di usufrutto di partecipazioni, resta il nudo proprietario, non l’usufruttuario. Peraltro, l’impostazione della Suprema Corte sembra in contrasto anche con quanto affermato dall’Agenzia delle Entrate in tema di assegnazione agevolata, posto che nella circ. n. 26/2016 (cap. I, Parte I, § 2) si legge che “la qualità di socio, ai fini di cui trattasi, va riferita al soggetto titolare della nuda proprietà”. Infine, le affermazioni dalla Cassazione nelle pronunce in commento non paiono coerenti con quanto precisato dal Comitato triveneto dei notai nella massima 28 settembre 2017 n. H.I.32, ove si legge che, nel “caso delle partecipazioni societarie, hanno natura di frutti civili gli utili di esercizio di cui sia deliberata la distribuzione”, mentre gli “utili destinati a riserva non spettano dunque all’usufruttuario”. Con riferimento alla delibera di distribuzione di riserve, i notai chiamano in causa l’art. 1000 c.c., precisando che essa equivale a una “attribuzione di somme che rappresentano un capitale e non al pagamento di un frutto civile, per cui il diritto alla loro riscossione spetta al socio nudo proprietario, il quale, ai sensi dell’art. 1000 c.c., dovrà esercitarlo in concorso con l’usufruttuario e sulle somme riscosse si trasferirà l’usufrutto”. Anche un’eventuale applicazione di quest’ultima norma al caso qui in esame, concernente le somme spettanti a seguito della liquidazione, non sembra contribuire a risolvere le criticità, in particolare ove tra nudo proprietario e usufruttuario sussistano conflitti.