IL PUNTO
FISCALITÀ INTERNAZIONALE
Convenzione Italia-Germania non sempre in linea con l’OCSE
/ Giuseppe Francesco PATTI
La Convenzione contro le doppie imposizioni conclusa tra l’Italia e la Germania presenta diverse peculiarità rispetto al modello OCSE. Una prima particolarità è quella relativa alla clausola di split year contenuta nel punto 3 del Protocollo. Si ricorda che, per normativa interna italiana, un soggetto passivo è considerato residente per l’intero periodo di imposta o non lo è affatto. In altre parole, non è possibile considerare un soggetto passivo residente per una sola parte del periodo di imposta. Tale approccio, in caso di trasferimento della residenza da uno Stato ad un altro può creare sia fenomeni di doppia imposizione sia fenomeni di doppia non imposizione. Al fine di disciplinare il tema, la previsione contenuta nel Protocollo, così come interpretata anche dall’Agenzia delle Entrate (risoluzione n. 471 del 3 dicembre 2008), dovrebbe consentire (seppure il suo disposto letterale non brilli per chiarezza, anche rispetto a clausole simili che l’Italia ha introdotto in altre Convenzioni, quale quella conclusa con la Svizzera) di dirimere fattispecie di doppia residenza derivanti dal trasferimento di persone fisiche in corso di periodo di imposta ripartendo la tassazione tra gli Stati coinvolti in base al giorno in cui viene effettuato il cambio di domicilio. Ulteriore peculiarità del protocollo è quella relativa alla definizione di beneficiario effettivo. Contrariamente al modello OCSE (che non contiene una definizione espressa di tale nozione, i cui tratti salienti sono descritti nel Commentario agli artt. 10, 11 e 12), il punto 9 del Protocollo impone due requisiti per qualificare un soggetto come beneficiario effettivo: tale soggetto deve essere il titolare del diritto a cui il reddito rilevante si ricollega e la legislazione fiscale dei due Stati deve attribuire il reddito a tale soggetto. Questa clausola risulta anomala e pone una serie di tematiche interpretative. Il suo primo requisito (che impone di identificare il soggetto titolare del diritto cui il pagamento è collegato) sembra ragionevolmente essere di natura formalistica (cioè tale soggetto dovrebbe coincidere con il soggetto che ha, ad esempio, la titolarità giuridica di una partecipazione o di un diritto immateriale) e non appare in linea con i più recenti dettami del Commentario OCSE. Il secondo, invece, relativo alla circostanza che i redditi vengano attributi a tale soggetto dalla legislazione dei due Stati, pone una rilevante eccezione alla struttura e principi del modello OCSE che, come principio generale (e salvo, a tutto voler concedere, il principio ormai contenuto nell’art. 1, paragrafo 2, del modello OCSE 2017), non contiene previsioni specifiche in tema di attribuzione del reddito ai fini della legislazione interna degli Stati contraenti. Appare, quindi, incerto come tale clausola debba atteggiarsi in presenza di c.d. conflict of attribution (anche a voler ivi sorvolare sul tema dell’applicabilità tout court del trattato in presenza di un simile conflitto). Atteso che il disposto in disamina non sembra coerente con il consensus creatosi, anche a livello OCSE (come riportato dai recenti paragrafi del Commentario agli artt. 10, 11 e 12, i cui principi sono stati ripresi sia dalla Corte di Giustizia – in alcune delle “sentenze danesi” riferite alle cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16 – sia, a più riprese, dalla Corte di Cassazione) sembra necessario chiedersi se tale clausola debba comunque essere interpretata in conformità alle nuove direttive presenti nel Commentario (con una sorta di interpretazione dinamica) o se, di contro, tali principi non debbano essere considerati rilevanti nell’interpretazione del trattato in disamina. Seppure l’interpretazione corretta, anche in base ai canoni ermeneutici della Convenzione di Vienna, dovrebbe essere quella che impone di dare rilevanza primaria al testo del trattato (con conseguente irrilevanza dei più recenti principi del Commentario, soprattutto nella misura in cui non siano conciliabili con il dettato letterale di tale testo), non può tacersi come la Cassazione sembri adottare un approccio diverso (si veda la sentenza n. 24287 del 30 settembre 2019, nella quale la Corte ha fatto applicazione dei principi OCSE relativi al concetto di beneficiario effettivo in relazione alla Convenzione Italia-Giappone nella quale tale locuzione era del tutto assente). Un’ulteriore peculiarità della Convenzione in disamina attiene al suo art. 12, che disciplina le royalty. Seppure nel paragrafo 4 sia contenuta una generica definizione di royalty, il paragrafo 3 garantisce potestà impositiva esclusiva allo Stato di residenza del percettore di royalty corrisposte come remunerazione del diritto d’autore e diritti analoghi in relazione ad opere letterarie, drammatiche, musicali o artistiche, comprese anche attività televisive o radiofoniche. Di interesse risulta il riferimento ai diritti analoghi al diritto d’autore che dovrebbe rendere tale definizione alla stregua di una definizione aperta (in relazione, naturalmente, ai soli diritti di cui a tale paragrafo), come evidenziato dalla Cassazione (sentenza n. 21220 del 29 settembre 2006) e dalla prassi (risoluzione n. 12 del 9 febbraio 2004, risposta n. 493 del 21 ottobre 2020), che, a certe condizioni, potrebbe essere idonea a ricomprendere nel proprio ambito anche i proventi derivanti dallo sfruttamento del diritto all’immagine.