IL PUNTO
PROCEDURE CONCORSUALI
Trattamento controverso dei crediti da leasing nell’ammissione al passivo
/ Tommaso NIGRO
Il trattamento, in sede di ammissione al passivo del fallimento, dei crediti derivanti da contratti di leasing ha, da sempre, rappresentato uno tra gli aspetti più controversi, a principiare dall’individuazione dei confini dell’art. 72-quater del RD 267/42. Nel primo contrasto applicativo deve darsi atto di una dottrina, avallata da una certa giurisprudenza di merito, che ne riteneva l’applicabilità anche ai contratti risolti prima dell’apertura della procedura, facendo leva sul richiamo all’art. 1526 c.c.. Soluzione questa, che non aveva trovato consensi nella giurisprudenza di legittimità la quale ravvisava nell’art. 72-quater del RD 267/42 una disposizione di carattere speciale, destinata a rimanere confinata negli angusti limiti segnati dal suo tenore letterale. L’intervento legislativo attuato con la L. 124/2017 ha, poi, proposto una più organica disciplina del leasing, dando dignità e determinatezza ad un contratto che perde la sua caratteristica di “innominato ed atipico”, evidentemente sollecitando un primo aderente intervento nomofilattico (Cass. n. 8980/2019) – poi più volte confermato (Cass. nn. 12552/2019, 18543/2019, 27545/2019) – con enunciazione del principio di diritto: “In caso di fallimento dell’utilizzatore, il concedente avrà diritto alla restituzione del bene e dovrà insinuarsi al passivo fallimentare per poter vendere o allocare il bene e trattenere, in tutto o in parte, l’importo incassato. La vendita avverrà a cura dello stesso concedente, previa stima del valore di mercato del bene disposta dal giudice delegato in sede di accertamento del passivo. Sulla base del valore di mercato del bene, come stabilito sulla base della stima su menzionata, sarà determinato l’eventuale credito della curatela nei confronti del concedente o il credito, in moneta fallimentare, di quest’ultimo, corrispondente alla differenza tra il valore del bene ed il suo credito residuo, pari ai canoni scaduti e non pagati ante-fallimento ed ai canoni a scadere, in linea capitale, oltre al prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione. Eventuali rettifiche, sulla base di quanto effettivamente realizzato dalla vendita del bene, potranno farsi valere in sede di riparto”. Così codificando un percorso atipico nella fase di verifica dello stato passivo che, a fronte di una domanda di ammissione, si risolve unicamente in una statuizione del giudice delegato di nomina dell’esperto senza determinazione del valore ammesso che sarà successivamente condizionato dalla commissionata stima. Detta ricostruzione non convince del tutto, presentando diversi motivi di censura. In primo luogo appare singolare la pronuncia che inverte l’onere probatorio incombente sul creditore istante; per di più individuando un criterio che sembrerebbe essere addirittura estraneo al procedimento di verifica, avendo la primaria finalità di determinare “l’eventuale credito della curatela nei confronti del concedente”. Più di tutto, si segnala il contrasto tra il ritardo, inevitabile, del procedimento di verifica con le esigenze di speditezza dell’intera procedura concorsuale (ed anche, per vero, con la norma di legge che dispone il differimento di soli otto giorni) con effetti penalizzanti per i soggetti che dall’esecutività dello stato passivo possono trovare immediato giovamento (si pensi ai lavoratori subordinati che necessitano del decreto di esecutività per poter accedere al Fondo di garanzia). Tutto ciò senza alcun effetto concreto sulla “stabilizzazione” del credito del concedente, che sarà condizionato non tanto dal valore di stima, quanto dal ricavato della riallocazione del bene da rettificarsi in sede di riparto. A tacere dell’ulteriore complicazione derivante dalla necessità di individuare a carico di quale soggetto vada collocato il compenso del perito. Una soluzione atta a sterilizzare gli effetti negativi di tale principio si ritrova in una condivisibile pronuncia di merito (Trib. Verona 19 luglio 2019): sul presupposto che “prima della riallocazione del bene il credito del concedente è sì indeterminato, ma tuttavia determinabile in base ai criteri fissati per legge” dispone l’ammissione “in misura pari alla differenza tra il credito residuo del concedente, rappresentato dai canoni scaduti e non pagati fino alla data di fallimento, dai canoni a scadere in linea capitale, e dal prezzo pattuito per l’esercizio dell’opzione, ed il ricavato della ricollocazione del bene, senza necessità di provvedere alla specificazione del relativo importo, che verrà effettuata in occasione del primo riparto parziale successivo alla riallocazione del bene ovvero, e comunque, in sede di riparto finale”. Senza con ciò disattendere le indicazioni del giudice di legittimità, prevedendo comunque “la nomina di un perito per la stima del bene, nomina funzionale non, per le ragioni appena esposte, all’ammissione del credito allo stato passivo, bensì all’attività di ricollocazione del bene, al fine di assicurare che essa avvenga sulla base di una stima predisposta da un soggetto imparziale”; con compenso a carico del concedente in considerazione della mera “designazione” da parte del giudice delegato. Potendo inoltre immaginare, quale ulteriore variante atta ad una più rapida definizione, di operare sin da subito la valutazione in occasione dell’inventario ex art. 87 del RD 267/42 con affidamento dell’incarico allo stimatore già officiato.