La Cassazione, nella sentenza n. 29850/2022, si sofferma sulla prova dell’elemento materiale e di quello soggettivo in relazione alla fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale (artt. 216 e 223 del RD 267/42). La prova della distrazione dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della destinazione dei beni suddetti oppure anche da generiche affermazioni, prive di riscontri, circa la loro destinazione conforme agli scopi sociali. Questo modo di procedere si fonda sulla considerazione che l’imprenditore assume una posizione di garanzia nei confronti dei creditori, i quali confidano nel patrimonio dell’impresa per l’adempimento delle obbligazioni sociali. Da qui, la diretta responsabilità dell’imprenditore, quale gestore di tale patrimonio, per la sua conservazione ai fini dell’integrità della garanzia. La perdita ingiustificata del patrimonio o la elisione della sua consistenza incide sulle aspettative dei creditori e integra l’evento giuridico tutelato dalla fattispecie. Tali rilievi giustificano la, solo apparente, inversione dell’onere della prova incombente sul fallito in caso di mancato rinvenimento di beni da parte della procedura e in assenza di giustificazione al riguardo, nel senso che occorre dare conto di spese, perdite od oneri compatibili con il fisiologico andamento della gestione imprenditoriale. Con riferimento all’indicazione della destinazione dei beni dell’impresa al momento in cui viene interpellato dal curatore, infatti, grava sul fallito un obbligo di verità presidiato da sanzione penale. Ai sensi dell’art. 87 comma 3 del RD 267/42, in particolare, prima di chiudere l’inventario, il curatore invita il fallito o, se si tratta di società, gli amministratori a dichiarare se hanno notizia che esistano altre attività da comprendere nell’inventario, avvertendoli della pena stabilita dall’art. 220 del RD 267/42, in caso di falsa o omessa dichiarazione, ovvero la reclusione da sei a diciotto mesi (cfr. Cass. nn. 22279/2022 e 27819/2017). Tale situazione sussiste anche con riguardo alla liquidazione giudiziale, in vigore dal 15 luglio scorso, rispetto alla quale l’art. 195 comma 3 del DLgs. 14/2019 ribadisce che, prima di chiudere l’inventario il curatore invita il debitore (non più il fallito) o, se si tratta di società, gli amministratori a dichiarare se hanno notizia di altri beni da comprendere nell’inventario, avvertendoli della pena stabilita dall’art. 327 – sempre da sei a diciotto mesi – in caso di falsa o omessa dichiarazione. Si tratta, quindi, di una legittima sollecitazione affinché il diretto interessato, in quanto gestore dell’impresa, dia adeguata dimostrazione circa la destinazione dei beni o del loro ricavato. Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, poi, si ribadisce come non siano necessari, ai fini della sussistenza del richiesto dolo generico, né la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, richiedendosi solo che oggetto di consapevolezza sia, in relazione alla concreta situazione della società, l’incidenza dell’atto distrattivo sulle prospettive di soddisfacimento concorsuale dei creditori (cfr. Cass. n. 17819/2017). Tale ricostruzione del dolo generico presenta importanti ricadute sulla complessiva ricostruzione della fattispecie. Nel senso che il reato in esame finisce per punire non già, indifferentemente e sempre, qualsiasi atto in diminuzione del patrimonio della società, ma soltanto quelli che sono in concreto idonei a produrre un simile effetto, con esclusione di tutte le operazioni e le iniziative di entità minima o particolarmente ridotta e tali, soprattutto se isolate o realizzate quando la società era in bonis, da non essere capaci di determinare una sensibile alterazione della funzione di garanzia del patrimonio (cfr. Cass. n. 35093/2014). Si tratta, infatti, di condotte che già in sé – ovvero nella loro materialità – si presentano insuscettibili di essere ricondotte nell’alveo della nozione di fraudolenza (cfr. Cass. n. 45230/2021). Di contro, come evidenziato da altre pronunce (cfr. Cass. n. 38396/2017), esistono casi in cui già il comportamento concreto rivela, in sé, in termini di immediata evidenza dimostrativa (e al di fuori di qualsiasi logica presuntiva), la presenza di una “fraudolenza”, non solo dal punto di vista dell’elemento materiale, ma anche del dolo richiesto dal reato in questione. Ciò – afferma la Suprema Corte – in ragione dei più vari fattori, quali, ad esempio, il collocarsi del singolo fatto in una sequenza di condotte di spoliazione dell’impresa poi fallita ovvero in una fase di già conclamata decozione della stessa. Situazione ravvisata nel caso di specie, connotato da ingiustificati e consistenti prelievi dalle casse sociali, dalla vendita sottocosto di rami di azienda, da incassi non versati e da gestioni anomale di importi rilevanti in un arco temporale in cui si presentava già palese la condizione di dissesto economico e finanziario della società.
11 agosto 2022
/ Maurizio MEOLI