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LAVORO & PREVIDENZA

L’assenza disciplinare vale anche per le dimissioni di fatto

Il Tribunale di Milano ritiene valide le norme dei CCNL in materia di assenza ingiustificata che porta al licenziamento

/ Mario PAGANO

Venerdì, 14 novembre 2025

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Le disposizioni del CCNL, che individuano il termine di assenza ingiustificata che legittima il licenziamento, valgono anche in relazione alla nuova procedura di risoluzione per fatti concludenti del rapporto di lavoro.

Lo ha stabilito il Tribunale di Milano con una sentenza del 29 ottobre 2025 con la quale si registra un nuovo capitolo, questa volta di matrice giurisprudenziale, relativo alla corretta interpretazione del nuovo comma 7-bis dell’art. 26 del DLgs. 151/2015 e, più in particolare, sui presupposti in presenza dei quali il meccanismo di dimissioni di fatto può legittimamente operare.

La decisione dei giudici di merito è, comunque, destinata a fare discutere, sia perché si pone in contrasto con i più recenti orientamenti del Ministero del Lavoro sia perché, ad avviso dello scrivente, lascia qualche dubbio sulla legittimità applicativa delle dimissioni per fatti concludenti in relazione ai presupposti ritenuti sussistenti nel caso di specie rispetto a quelli delineati dal legislatore.

Con una FAQ del 24 giugno 2025 il Ministero del Lavoro è intervenuto per cercare di chiarire la valenza delle attuali disposizioni dei contratti collettivi, previste in tema di licenziamento, in relazione alla nuova procedura di risoluzione per fatti concludenti. Un intervento successivo a una serie di interpretazioni nate dalla sentenza n. 87/2025 del Tribunale di Trento che, secondo alcuni commentatori, sembrava aver messo in discussione alcuni principi stabiliti dallo stesso Ministero con la circ. n. 6/2025 (si veda “Per le dimissioni di fatto serve una disposizione ad hoc nel CCNL” del 30 giugno 2025).

L’elemento oggetto di discussione attiene, come detto, alle clausole del contratto collettivo, già esistenti alla data di entrata in vigore della nuova procedura, che sanzionano con il licenziamento l’assenza ingiustificata, individuando la relativa durata. Una parte della dottrina ha ritenuto, all’indomani della vigenza delle nuove disposizioni sulle dimissioni per assenza ingiustificata del lavoratore, di poter mutuare i termini (spesso più brevi) previsti dai contratti collettivi per l’ipotesi di licenziamento, derogando così al più lungo termine legale di almeno 15 giorni, previsto, in mancanza di previsione contrattuale, dal nuovo comma 7-bis dell’art. 26 del DLgs. 151/2015. Diversamente, il Ministero, con la circ. n. 6/2025, è stato netto nello stabilire che le eventuali previsioni della contrattazione collettiva devono essere espressamente riferite a questa nuova fattispecie e, inoltre, che il termine eventualmente individuato per legittimare la risoluzione del rapporto per comportamento concludente non deve essere inferiore a quello individuato dalla legge, ossia almeno 15 giorni.

Il Tribunale di Milano, tuttavia, smentisce nettamente tale ricostruzione, sostenendo che il legislatore, nel rinviare alla contrattazione collettiva, “ha inteso valorizzare la soglia di tolleranza che le stesse parti sociali hanno individuato come critica, ovvero il numero di giorni di assenza la cui gravità è tale da giustificare la sanzione massima della risoluzione del rapporto”. Secondo i giudici, infatti, “la nuova norma non fa altro che mutare la qualificazione giuridica degli effetti di tale condotta, trasformandola da presupposto per un licenziamento datoriale a fatto concludente che manifesta la volontà del lavoratore di recedere”.

Ad avviso di chi scrive, tuttavia, un tale orientamento che insiste nel porre sullo stesso piano condotte diametralmente differenti (una avente rilievo disciplinare, l’altra per lo più di mera inerzia o quanto meno caratterizzata dalla volontà di non proseguire il rapporto di lavoro) potrebbe rischiare di generare una pericolosa sovrapposizione tra la disciplina del licenziamento e quella delle dimissioni per fatti concludenti, foriera, inevitabilmente, di ulteriore incertezza e, conseguente, contenzioso.

Ma vi è un altro aspetto meritevole di essere evidenziato. Nel caso di specie, infatti, la lavoratrice interessata non si era presentata al lavoro comunicando, tuttavia, le ragioni della propria assenza e spiegando di non poterla giustificare con un certificato medico per assenza del proprio specialista.

Secondo il Tribunale tale motivazione non riveste i canoni della “forza maggiore”, che, secondo lo stesso comma 7-bis, permettono al lavoratore di contestare e bloccare la procedura. Tuttavia, a ben vedere la norma richiede la forza maggiore rispetto all’impossibilità di comunicare i motivi e non con riguardo al valore esimente da attribuire agli stessi, il cui sindacato, ad avviso di chi scrive, potrà essere valutato eventualmente ai fini disciplinari dal datore di lavoro e davanti a un giudice in sede di contenzioso.

Del resto, non va dimenticato che la Cassazione (si veda ad esempio, Cass. 10 ottobre 2019 n. 25583) ha più volte ribadito che, per le dimissioni per fatti concludenti, quindi, non espresse formalmente, il comportamento del lavoratore deve essere inequivocabile, ovvero tale da non lasciare spazio ad altre interpretazioni se non quella della volontà di dimettersi.

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