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LAVORO & PREVIDENZA

Per le dimissioni di fatto necessario un termine ampio e inequivocabile

Il Tribunale di Ravenna ritiene il termine legale di 15 giorni parametro costituzionale vincolante per il CCNL

/ Mario PAGANO

Martedì, 16 dicembre 2025

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Il termine previsto dal CCNL, che consente di perfezionare la nuova procedura per le dimissioni di fatto, non solo deve essere contenuto in una norma ad hoc del medesimo CCNL, ma deve necessariamente essere più lungo di quello legale di 15 giorni, fissato dalla norma.

Lo ha affermato il Tribunale di Ravenna che, con la sentenza n. 441/2025, dopo Trento, Milano e Bergamo, aggiunge un nuovo tassello al panorama giurisprudenziale su un tema di assoluto interesse come quello delle dimissioni per fatti concludenti.

La pronuncia del giudice di merito conferma ancora una volta le difficoltà applicative del nuovo comma 7-bis dell’art. 26 del DLgs. 151/2015, tanto da generare continue interpretazioni tra i giudici di merito non sempre in linea tra di loro nel fornire una chiave di lettura di una norma che, lo stesso Tribunale di Ravenna, con una decisione indubbiamente più critica e analitica rispetto alle precedenti, definisce oscura e “carente dal punto di vista degli elementi strutturalmente necessari per integrarne la fattispecie”.

Questa volta a finire sotto la lente di ingrandimento di un giudice di merito è il rapporto tra termine contrattuale e termine legale.
Sul punto il Ministero del Lavoro ha sempre sostenuto, sia con la circ. n. 6/2025 che con successiva FAQ del 24 giugno 2025, che le eventuali previsioni della contrattazione collettiva devono essere espressamente riferite a questa nuova fattispecie e, inoltre, che il termine eventualmente individuato per legittimare la risoluzione del rapporto per comportamento concludente non deve essere inferiore a quello individuato dalla legge, ossia almeno 15 giorni. Tali principi trovano piena conferma nella pronuncia del Tribunale di Ravenna.

Va evidenziato che la sentenza, oltre a soffermarsi sulla questione circa la validità a fini dimissionari delle attuali clausole contrattuali in tema di licenziamento, contenute nel CCNL, come fatto in senso divergente da Milano e Bergamo, si spinge per la prima volta a esaminare il rapporto tra termine contrattuale e legale.

Rispetto al primo profilo, il giudice stigmatizza la lacunosità della norma, che non permette di comprendere con certezza se il termine di assenza ingiustificata, previsto dal CCNL in tema di licenziamento, in genere molto breve, possa avere anche valore dimissionario, con la conseguenza che, per una sua lettura costituzionalmente orientata, occorre necessariamente guardare al più lungo termine legale di 15 giorni. Diversamente si finirebbe “per ricavare una presunzione assoluta di volontà di dimissioni da un comportamento ambiguo (per brevità dell’assenza) del lavoratore, tale da non essere obiettivamente (e ragionevolmente) riconducibile ad uno schema induttivo legale (con presunzione addirittura iuris et de iure)”.

È proprio la previsione legale, che individua, in mancanza di diversa disposizione dei CCNL, un termine normativo di almeno 15 giorni di assenza ingiustificata, per potersi attivare la presunzione legale assoluta di intento dimissionario, a fornire la giusta chiave di lettura alla disposizione, la quale intende creare, attraverso un termine suppletivo ampio, un bilanciamento tra il principio di tutela lavoristica e quello della libertà di impresa. Tale esigenza di bilanciamento, garantita attraverso il termine legale, impedisce allo stesso modo anche al termine contrattuale di essere troppo breve e ambiguo.

Muovendo dall’indicato ragionamento, la sentenza arriva a delineare due conclusioni.
I termini di assenza ingiustificata, previsti dalla contrattazione collettiva a fini disciplinari, non possono valere anche per la procedura di dimissioni per fatti concludenti, in quanto eccessivamente brevi per poterne indurre, con presunzione legale assoluta, una volontà dimissionaria; si tratterebbe inoltre di mettere sullo stesso piano concetti diversi, quali un illecito disciplinare e la manifestazione di volontà di dimettersi.

Da ciò la necessità che i CCNL disciplinino la nuova fattispecie di dimissioni di fatto con disposizioni ad hoc, le quali, tuttavia, dovranno prevedere termini sufficientemente ampi da poter risultare idonei a determinare una precisa e inequivocabile volontà dimissionaria del lavoratore (peraltro, a parere di chi scrive, come sostenuto dalla stessa Cassazione n. 25583/2019).

Per quanto concerne il secondo aspetto, corollario di quanto appena affermato, il termine contrattuale non potrà mai essere inferiore a quello legale, definito dal giudice, parametro legale costituzionalmente ragionevole per l’attivazione della presunzione iuris et de iure.

Da ultimo va evidenziato come, nel caso di specie, il giudice, dopo aver ritenuto non perfezionata la procedura ex comma 7-bis e mai cessato il rapporto, condanni il datore di lavoro, sfornito del regime sanzionatorio ridotto, previsto per i licenziamenti, all’esecuzione del contratto e al risarcimento del danno ex art. 1453 c.c. commisurato alle retribuzioni omesse nel periodo oggetto di illegittima interruzione del rapporto di lavoro.

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