I benefici del DL 78/2010 alla prova dell’applicabilità
Contenimento della spesa pubblica e politiche di sviluppo: il giusto equilibrio al di là delle apparenze
Si vede tanta “stabilizzazione finanziaria” e poca “competitività economica” nella manovra dell’estate 2010 se ci si spinge, oltre che all’analisi della denominazione ufficiale del provvedimento, alla sua attenta disamina di dettaglio. Peraltro, ogni manovra di rilievo, almeno da un decennio a questa parte, accanto alle misure di correzione dei conti pubblici ha sempre affiancato una serie di interventi rivolti a stimolare l’economia o, in generale, ad incentivare l’attività d’impresa. Stavolta, però, l’esercizio rischia di essere solo retorico o, almeno, molto evanescente nella definizione degli istituti messi in campo per amplificare – in una declinazione generica – l’applicazione di una fiscalità di vantaggio nel Mezzogiorno, l’attrazione degli investimenti dall’estero e la crescita dimensionale dei soggetti economici.
Da questo punto di vista, la manovra ruota intorno ad un’idea innovativa – applicare alle imprese che dall’estero vengono in Italia, in alternativa a quello naturale, il regime fiscale (da esse scelto) di uno degli altri 26 Paesi (ove ritenuto più favorevole) – ed alla riproposizione (in chiave diversa) di modelli di sostegno che, periodicamente, si ripetono (con diversa fortuna).
Il Regime fiscale di attrazione europea è, per il nostro Paese, una novità assoluta, tanto interessante quanto (nella mera enunciazione del DL 78) ancora tutta da definire e testare operativamente. Il principio declinato è quello di eliminare le economie localizzative di tipo fiscale che, per le nuove attività produttive, possono presentarsi a seguito della scelta tra i 27 diversi Stati membri (e tra i loro peculiari ordinamenti fiscali) dell’Unione. In tal senso, l’applicazione (non solo per chi, dall’estero, viene ad investire in Italia, ma anche per i suoi dipendenti e collaboratori) dell’eventuale regime fiscale di maggiore favore stabilito in uno qualsiasi degli altri 26 Paesi annulla totalmente gli effetti di politiche di dumping fiscale qui praticate. L’idea è (in teoria) buona. Molto più difficile si presenta, invece, la sua declinazione operativa, affidata dal DL 78, da un lato, alla previsione dell’obbligo preventivo di interpello per l’applicazione del regime alternativo e, dall’altro, alla necessaria definizione di regole attuative con decreto del Ministero dell’Economia. In ogni caso, quest’ultimo (non da poco) elemento mancante, la discrezionalità (almeno teorica) della risposta all’interpello e, più di tutto, la difficoltà di cogliere i dettagli operativi di 27 regimi fiscali differenti (tanto per l’Erario quanto per i contribuenti) autorizzano a guardare all’innovazione legislativa quanto meno con circospezione.
Anche la c.d. “Fiscalità di vantaggio” per il Mezzogiorno – tanto invocata almeno da quando fu abolita, nei primi anni ’90 – arriva all’improvviso, con la manovra d’estate, sotto forma di piena facoltà (attribuita alle Regioni) di modificare le aliquote, fino ad azzerarle, dell’IRAP e di disporre esenzioni, detrazioni e deduzioni, nei riguardi delle nuove iniziative produttive, per la medesima imposta. L’IRAP, come noto, è un tributo a titolarità regionale. Pertanto, ai singoli enti sono concesse le citate prerogative in anticipazione del federalismo fiscale. Anche qui, però, c’è da considerare che – poiché tale opportunità viene attribuita alle sole Regioni Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia – in ragione dell’elevato deficit sanitario della maggior parte di esse, non sarà facile operare le previste riduzioni di prelievo, in assenza di forme di compensazione con risorse erariali (al momento, non previste né prevedibili).
Infine, la manovra prova a rilanciare l’istituto delle reti d’imprese (di cui all’articolo 3, comma 4-ter e seguenti, del DL n. 5/09), già da tempo assimilato a quello dei distretti produttivi. Il problema, in questo caso, è che tanto le reti quanto i distretti non hanno mai visto l’applicazione concreta della disciplina di favore (di tipo fiscale, finanziario e amministrativo) per essi da tempo proposta. Ciò perché le diverse scadenze, via via individuate per definire le norme d’attuazione, sono sempre state ritenute (come in questo caso, peraltro) ordinatorie e non perentorie. Insomma, si continua a progettare ponti d’oro (in senso legislativo) per chi fa impresa in modo virtuoso ma, poi, manca sempre chi deve costruirli. Nel caso della più eclatante delle innovazioni della manovra d’estate (l’istituzione delle c.d. “Zone a burocrazia zero”, dove commissari governativi potranno sostituirsi alle amministrazioni locali inadempienti), l’intervento rischia anche di tingersi di giallo. Cosa possa, infatti, significare l’attribuzione ai sindaci della facoltà di gestire direttamente le risorse previste per le Zone franche urbane (altro istituto la cui vita è stata costellata di ostacoli) per la concessione di contributi diretti alle nuove iniziative produttive avviate nelle Zone a burocrazia zero (ove queste coincidano con le Zone franche urbane) lo si scoprirà (forse) solo vivendo.
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