L’abuso del diritto e i fantasmi della storia
Caro Direttore,
pochi sanno che l’abuso del diritto nasce nell’Ottocento nei Paesi di civil law come “abuso del diritto soggettivo” (abuse of right), nell’ambito di controversie tra privati. Ad esempio, il socio di maggioranza che faccia deliberare continui aumenti di capitale sociale, di cui la società non ha bisogno, al fine di estromettere il socio di minoranza che non ha i denari per sottoscriverli, abusa del suo diritto e l’ordinamento reagisce, qualificando il suo comportamento come “abusivo”. Su queste stesse radici è costruita oggi la giurisprudenza della Corte di Giustizia Ue.
Pochissimi sanno (e quei pochi non mi pare lo dicano) che l’estensione del divieto di abuso del diritto al diritto pubblico (“l’abuso del diritto positivo” o abuse of law) avvenne nella Russia degli anni Venti del secolo scorso. Nonostante che la lettera della legge consentisse al cittadino di tenere un certo comportamento, ove questo fosse stato in conflitto con gli interessi dello Stato, la teoria dell’abuso lo rendeva illegittimo. Il merito di tale estensione si deve alla giurisprudenza della Corte suprema sovietica: per demolire il vecchio ordinamento giuridico zarista e riscriverlo ex novo occorreva tempo e, laddove le nuove leggi non avessero ancora regolato nel senso voluto certe questioni, l’abuso del diritto permetteva di conseguire le soluzioni desiderate. Lenin commentò con entusiasmo tale teoria giurisprudenziale, al punto che venne codificata: l’art. 1 c.c. sovietico del 1922 diceva che “i diritti civili sono protetti dalla legge salvo quando siano esercitati in modo contrario alle loro finalità economiche e sociali”.
Quel fine giurista che fu Vyshinsky (consigliere giuridico di Stalin e vittorioso accusatore nei processi delle purghe staliniane che gli valse la promozione a Ministro degli Esteri dell’URSS), nel suo volume sul diritto sovietico (assai famoso anche perché, tradotto in inglese, fu pubblicato nel 1948 negli USA), scrive che Lenin e Stalin insegnano come la teoria dell’abuso del diritto abbia un ruolo centrale nell’interesse della rivoluzione comunista, da realizzarsi mediante la dittatura del proletariato. Scrive anche che la giustizia sovietica è un organo effettivo della politica, al pari dell’amministrazione, giacché ne persegue gli stessi fini, da cui discende pacificamente la rilevabilità d’ufficio delle questioni sull’abuso del diritto. La feroce critica di Vyskinsky all’idea della tripartizione dei poteri di Montesquieu e al concetto stesso di “Stato di diritto” da soli giustificherebbero la lettura del suo lavoro.
L’abuso del diritto ebbe quindi il suo “upgrade costituzionale” (art. 39 Cost. URSS del 1977) e fu codificato in quasi tutti gli ordinamenti dei Paesi dell’est Europa. Tuttavia, in URSS la questione dell’abuso del diritto non si pose in materia fiscale, anche perché, come è noto, il problema fiscale l’avevano, per così dire, risolto alla radice una volta per tutte.
Per trovare di chi sia il merito dell’estensione dell’abuso del diritto alla fiscalità occorre andare dall’altra parte dell’Europa, in Germania. La giurisprudenza della Corte finanziaria del Reich, nella seconda metà degli anni Trenta, affermava la necessità di disconoscere i vantaggi fiscali di una data operazione, ancorché rispettosa della lettera della legge, quando mancavano valide ragioni economiche e i motivi fiscali erano stati decisivi, perché ciò era in contrasto con gli interessi finanziari dello Stato nazionalsocialista, principio dell’ordinamento giuridico del terzo Reich, “immanente” secondo gli insegnamenti di Hegel.
Dopo la guerra ci mise del suo anche un giurista cattolico, il Morin, in un volume, pubblicato a Parigi nel 1945, il cui titolo la dice lunga: la rivolta del diritto contro il codice, ossia l’auspicio del trionfo di questo preteso “diritto immanente” (che, come l’araba fenice, “che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”) contro il diritto scritto, quello dei codici.
Quel grande giurista che fu Salvatore Satta, in un discorso tenuto nel 1954 all’Università di Genova, affermava che la teoria dell’abuso del diritto è un “attacco al diritto soggettivo”, finalizzata alla negazione del diritto stesso: “Per il tramite dell’abuso del diritto, o col pretesto del ripudio delle finzioni (…) è al cuore del diritto soggettivo stesso che si vuole mirare”. Attuali come non mai sono le sue parole secondo cui sono “più diritto” le decisioni dei giudici di quanto non siano le leggi, perché le prime sono il diritto applicato nella pratica ai casi concreti, mentre le seconde regolano casi generali e astratti.
Per dirla ancora con Satta, la storia ci insegna che l’abuso del diritto altro non è che “la rivolta del diritto contro il diritto” e che, come dice il filosofo contemporaneo Sloterdijk, “molti fattori ci dicono che il sistema fiscale che abbiamo davanti agli occhi transiterà direttamente dall’assolutismo all’epoca postdemocratica, senza aver conosciuto, nel passaggio, una fase democratica”.
Le uniche declinazioni con cui si può ammettere il concetto di abuso del diritto sono quella “classica”, di abuso del diritto soggettivo (anche in materia fiscale, e solo se un diritto soggettivo vi è per davvero), cui si ispira la stessa Corte di Giustizia, e quella prevista dall’art. 17 CEDU, intitolato “divieto di abuso del diritto” che è rivolto, in prima battuta, allo Stato: “Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto di uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un’attività o di compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti dalla presente Convenzione o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione”.
Declinazioni, queste, che nulla hanno a che vedere con quella teorizzazione della giurisprudenza nostrana che, sotto il nome di “abuso del diritto”, propone un (nuovo) diritto che si rivolta contro il diritto stesso, tanto sostanziale (l’imposizione al di là della lettera della legge) quanto processuale (la rilevabilità d’ufficio). Teorizzazione che, unitamente al modo in cui l’unico vero esempio di “democrazia dell’imposizione”, lo Statuto dei diritti del contribuente, viene continuamente violato e calpestato dallo stesso diritto, ci offre, tutti i giorni, un’evidente conferma di quanto, dalle tenebre, ci sussurrano i fantasmi della storia, ossia la “dittatura della fiscalità”.
Stefano Marchese
Consigliere CNDCEC delegato alla Deontologia
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