Pagare tutti per pagare meno o... per pagare tutto
Giorno dopo giorno, si nota con piacere uno spostamento del baricentro del dibattito dalla riforma fiscale alla spesa pubblica.
Parlare della prima senza affrontare i nodi della seconda è possibile, ma soltanto se l’obiettivo è quello di dar vita all’ennesimo rimescolamento di carte, secondo logiche redistributive.
Se invece si vuole dare ad intendere che l’obiettivo è quello di ridurle, allora non si scappa: bisogna intervenire sulla spesa pubblica e soltanto poi parlare di fisco.
Il problema è che contenere la spesa pubblica sembra impossibile o quasi.
Lasciamo perdere le dinamiche del 2009, anno per il quale l’esplosione della spesa e del debito è stata tanto sconvolgente quanto però comprensibile nelle sue dinamiche.
Guardiamo gli anni compresi tra il 1993 e il 2008, ossia quelli che hanno seguito il grande spavento della “quasi bancarotta” dello Stato nel 1992 e che, anche politicamente parlando, rappresentano gli anni della c.d. “Seconda Repubblica”.
Se prendiamo la spesa pubblica al netto degli interessi passivi sul debito (i quali rappresentano una variabile esogena rispetto alle politiche di spesa del periodo, perché sono piuttosto il prezzo da pagare per le politiche precedenti), vediamo che essa è sempre cresciuta in termini reali rispetto all’anno precedente, fatta eccezione soltanto per il biennio 1994/1995, il 2000 e il 2007.
Nel 1993 era di 365 miliardi di euro; nel 1997 era arrivata a 430; nel 2001 è schizzata 522; nel 2008 era giunta a 694 (e sempre per tacere del 2009).
Tra il 1993 e il 2000 la crescita reale è stata del 7,85% (quella nominale del 35,81%).
Tra il 2001 e il 2008 la crescita reale è stata addirittura del 25,28% (quella nominale del 46,17%).
La crescita reale della spesa pubblica nel periodo 1993-2000 è stata quanto meno giustificata da una più che proporzionale crescita del PIL e da un miglioramento del differenziale con le entrate (il famoso “avanzo primario”).
Nel periodo 2001 e 2008, complice una congiuntura economica meno favorevole e un contesto monetario meno flessibile del periodo precedente, mancano anche questo tipo di “giustificazioni”.
In questo quadro, per parlare di riduzione della pressione fiscale non basta puntare “solo” alla lotta all’evasione.
Se non si agisce anche sulla spesa pubblica, il famoso adagio “pagare tutti per pagare meno” è illusorio.
Semmai si può dire “pagare tutti per pagare tutto”, nel senso che forse si smetterebbe di accumulare debito pubblico, ma addirittura ridurre le imposte, in un vincolo di equilibrio di bilancio, resterebbe impossibile.
Per ridurre la spesa pubblica, purtroppo, servono sacrifici.
Alcuni diritti acquisiti devono essere necessariamente rimodulati, con riforme che sono il presupposto per farne una, per davvero, anche sul piano fiscale.
D’altro canto, la logica del diritto acquisito è un indice di civiltà giuridica e sociale solo fino a quando tutti possono ambire ad acquisirlo.
Per imporre sacrifici bisogna essere disposti a dare l’esempio: non è demagogia, è l’abc della leadership.
Il generale in trincea con i suoi uomini, anziché nelle comodità delle retrovie, spara e difende per uno solo su un fronte di chilometri. Il suo sacrificio è inutile demagogia, oppure è ciò che compatta tutto il battaglione nel resistere con più convinzione alle avversità?
La diminuzione del numero dei parlamentari, dei consiglieri regionali e degli enti locali, nonché la riduzione dei loro trattamenti economici, incidono assai poco in termini percentuali sulla spesa e sul debito complessivo.
Eppure, fino a quando queste scelte non saranno attuate, null’altro di incisivo potrà essere imposto.
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