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EDITORIALE

Se questo è il nuovo redditometro, obiettivo fallito in partenza

/ Enrico ZANETTI

Martedì, 1 giugno 2010

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La manovra finanziaria è entrata in vigore appena ieri, dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, e le disposizioni attuative sono di là dall’essere definite, ma sul “nuovo” redditometro possiamo già tirare le prime conclusioni, prendendole a prestito dal grande e indimenticabile Gino Bartali: è tutto sbagliato, tutto da rifare.

I commercialisti italiani sono stati i primi, all’inizio del 2008, a sottolineare che lo strumento cardine della lotta all’evasione di massa non potevano essere gli studi di settore (utili, ma non decisivi e soprattutto non snaturabili in meccanismi automatici), bensì il buon vecchio redditometro, opportunamente rivisto, corretto e potenziato.
Questo perché il redditometro, diversamente dagli studi di settore, non si applica soltanto ai titolari di talune tipologie di reddito (favorendo così la coesione sociale, in luogo della contrapposizione) e, cosa ancor più importante, si fonda su un presupposto assai più solido e condivisibile: contrappone il reddito dichiarato dal contribuente alla sua capacità di spesa e non a più o meno elaborate e astruse medie di settore.

La “rivisitazione, correzione e potenziamento” del redditometro dovevano però riguardare essenzialmente la sua capacità di attingere direttamente da banche dati dell’anagrafe tributaria sempre più efficienti (per poter appunto diventare strumento “di massa”); l’inclusione di nuovi indici di capacità contributiva a fianco dei “classici” immobili, barche e autovetture; nonché il perfezionamento dei coefficienti mediante i quali quantificare il reddito presunto in base non a spese monetarie, bensì in base al possesso di beni patrimoniali.

Stando alle prime indiscrezioni giornalistiche, cosa pare stiano invece approntando i tecnici dell’Agenzia delle Entrate su mandato del legislatore?
Allargano la platea di voci e spese rilevanti (e questo, come detto, è giusto), ma si mettono a concepire coefficienti di trasformazione delle spese in reddito, costruendoli sulla base di valutazioni statistiche.
Ad esempio, per una famiglia con n componenti che risiede nella regione x, 100 euro di spese in beauty farm significano presunta disponibilità di reddito per 400 e così via.
Non ci siamo proprio.
Il redditometro necessita di coefficienti solo per trasformare in reddito presunto le spese non monetarie, ossia quelle che è lecito desumere dalla disponibilità di beni patrimoniali.
Nessun coefficiente statistico socio-economico deve invece sussistere con riferimento alle spese monetarie del contribuente: quale che sia la spesa, se essa è stata sostenuta per 100 euro, per 100 euro soltanto (non uno di meno e non uno di più) dovrebbe concorrere, ove rilevante, a formare il reddito presunto da redditometro.

È in questo che risiede la forza (anche evocativa) del redditometro.
Altrimenti, qui stiamo a creare una sorta di “studi di settore per famiglie”, con l’aggravante che viene data ad essi in via legislativa quella valenza presuntiva che gli studi di settore “originali” non hanno mai avuto e che, alla fine, persino la stessa Agenzia delle Entrate ha dovuto rinunciare a cercare di attribuire loro.
Pensano davvero che abbiamo tutti l’anello al naso, al punto da non accorgercene?

Inoltre, altro aspetto non condivisibile del “nuovo” redditometro, questa volta evincibile direttamente dal testo della bozza di manovra, è la “facilitazione” del suo utilizzo come strumento presuntivo contro il contribuente: per effetto della manovra, lo scostamento tra reddito dichiarato e reddito ricalcolato basterà che superi il 20% (e non più il 25%) in un solo periodo di imposta (e non più in almeno due).
Di nuovo siamo fuori da ogni logica di corretto approccio.
Proprio perché potenziato nel suo contenuto e nel suo utilizzo (e quindi idoneo a “aggredire” i contribuenti con frequenza molto maggiore di prima), il redditometro deve poter entrare in scena solo in presenza di situazioni di incongruità palese e quindi, se proprio modifiche ci dovevano essere su questo fronte, esse avrebbero dovuto semmai andare nella direzione di un irrigidimento dei presupposti necessari alla formazione della presunzione contro il contribuente.
L’impressione è che fame di denaro del legislatore e il perenne desiderio di lavorare sul velluto dell’amministrazione finanziaria stiano gettando le basi per rovinare in partenza la credibilità del redditometro e perdere così per strada anche questa possibile soluzione di contrasto all’evasione fiscale di massa.

Di sicuro, uno strumento così configurato, fatto di coefficienti arbitrari anziché di evidenze empiriche oggettive, non avrà mai l’appoggio dei commercialisti italiani e sarà destinato a fare la fine che già hanno fatto gli studi di settore nell’immaginario collettivo: uno strumento di oppressione fiscale, anziché una garanzia di equità.

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