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LETTERE

Per l’imposta patrimoniale servirebbe un sistema fiscale più serio

Mercoledì, 12 gennaio 2011

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Caro Direttore,
contribuisco volentieri, a titolo ovviamente personale, al dibattito di tax policy sulla riforma fiscale.
Nel confronto europeo, secondo il recente lavoro della Commissione Ue della serie dei Taxation Papers, l’Italia è il Paese in cui la percentuale di imposte indirette sul gettito fiscale totale è tra le più basse (16,4% contro una media UE del 21,5%), a tutto vantaggio dell’imposizione diretta. In particolare, il gettito IVA è, percentualmente, tra i più bassi in Europa. Dall’altro lato, l’Italia è al primo posto in Europa per il peso dell’imposizione globale sul lavoro (imposte e contributi) (42,8% contro una media UE di circa il 34%). Un primo passo dovrebbe essere fatto spostando parte dell’onere fiscale, a parità di gettito, dall’imposizione diretta a quella indiretta. Parafrasando il Ministro Tremonti, “dalle persone alle cose”. Una riduzione del cuneo fiscale (e segnatamente dell’imposizione sul lavoro) accompagnata da un aumento dell’imposizione IVA costituirebbe uno stimolo alle esportazioni italiane, la cui competitività scende da diversi anni. Ciò, infatti, ridurrebbe il costo della componente lavoro dei prodotti a fronte della non imponibilità IVA delle esportazioni. L’imposizione sul fattore capitale in Italia si attesta al 35,3% contro una media europea del 26,5%. Non credo che, globalmente, ci sia spazio per ulteriori aumenti.

Quanto all’imposta sul patrimonio, caro Direttore, hai ragione tu che non è un tema di “sinistra”. Tra i molti sistemi fiscali che ho avuto modo di studiare in questi ultimi anni, mi sono convinto che quello svizzero è tra i migliori al mondo: è moderato, equo, attento alle problematiche della fiscalità delle famiglie e persino delle coppie di fatto, realmente federalista, certamente non di sinistra. Ebbene, tale sistema prevede, a livello cantonale e comunale, un’imposizione sul patrimonio (sulla “sostanza”, come la chiamano in italo-ticinese). E hai ragione quando dici che non è il principio a essere sbagliato, ma la sua attuazione “in questo benedetto Paese”. Se però il problema fosse solo quello del rischio di una redistribuzione a pioggia di poche decine di euro sui redditi più bassi, con le classi medie a bocca asciutta, sarebbe il meno; persino un incremento della pressione fiscale (nuova imposta e zero riduzioni delle altre) potrebbe trovare una giustificazione.

Il problema qui riguarda il livello di “serietà”, effettiva e percepita, del nostro sistema fiscale. Sul fronte della spesa pubblica, lo spreco è all’ordine del giorno: non occorre essere dei fini economisti, persino l’uomo della strada se ne rende conto. E allo spreco, troppo spesso, si aggiunge il malaffare. Il primo passo è comunicativo: occorre spiegare ai cittadini il bilancio dello Stato e dimostrare che, d’ora in avanti, i denari prelevati dalle tasche dei cittadini saranno destinati a finalità chiare, utili per tutti, oneste sotto il profilo etico ed efficienti sotto il profilo economico. Lo diceva Adam Smith nel 1776, che la fiducia dei cittadini nel buon uso delle imposte è il primo metodo per sconfiggere l’evasione, ben più di tante “grida” di manzoniana memoria o di accertamenti immediatamente esecutivi.

Sul fronte della struttura del prelievo, ha ragione il collega D’Imperio quando dice che un’imposta sul patrimonio ha senso allorché il reddito sia stato tassato con moderazione, ma non quando tale reddito sia già stato pesantemente decurtato dall’imposta sua propria, giacché quei pochi che ancora oggi riescono a risparmiare qualche soldo sarebbero disincentivati a farlo. L’effetto sarebbe la riduzione della propensione al risparmio per la classe media e una fuga dei grandi patrimoni dal nostro Paese.

Sul fronte delle entrate, occorre costruire un “sistema” fiscale, demolendo il manicomio tributario in cui stiamo vivendo, la cui follia il tuo giornale ogni giorno testimonia. Serve un’analisi approfondita delle condizioni in cui un certo istituto funziona: non si può pensare di esportarlo perché lo troviamo affascinante e funziona bene là dove esiste, senza rendere omogeneo l’ambiente, l’humus in cui opera. Solo per fare alcuni esempi, in quale Paese si è mai visto che non si capisca se un termine di decadenza per l’accertamento sia scaduto o meno? In quale Paese si è mai visto che vengano introdotte presunzioni che si assume valgano anche per il passato, tanto sono “solo norme procedimentali”? In quale Paese si trova una Corte suprema che si re-inventa la motivazione di un accertamento sulla base di un principio non scritto, ma suppostamente “immanente” nel sistema? In quale Paese un funzionario che firma un accertamento tributario rivelatosi infondato al vaglio giudiziale non sopporta le conseguenze del suo operato in termini disciplinari, di carriera, di responsabilità?

Mi fermo qui, caro Direttore, perché le mie domande potrebbero continuare per un centinaio di pagine. Per quanto riguarda l’attuazione di un’imposta sul patrimonio, possiamo darci appuntamento tra una ventina d’anni, se tutto va bene.


Stefano Marchese
Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Genova

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