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EDITORIALE

Quote di genere in CdA e collegi sindacali? Sì, però...

/ Enrico ZANETTI

Lunedì, 21 febbraio 2011

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Tra i tanti fronti che vedono in prima linea i commercialisti italiani, ne scopriamo uno di più: l’introduzione delle quote di genere negli organi di amministrazione e controllo delle società.

Il disegno di legge, che prevede le quote di genere in misura pari al 30% e la sanzione della decadenza per quegli organi che non vi si conformano, è al vaglio della Commissione Finanze del Senato, ma sembra aver perso l’abbrivio che ne consentì l’approvazione all’unanimità alla Camera: più di 50 sono gli emendamenti presentati, tra gli altri da Confindustria, ABI e ANIA, con la finalità di differire l’entrata in vigore dell’obbligo ed attenuarne il regime sanzionatorio.

Di fronte a questo scenario, il Consiglio nazionale dei commercialisti non ha esitato a far sentire la sua voce a sostegno del disegno di legge, “senza se e senza ma” e pure senza modifiche (si veda “Il CNDCEC difende il Ddl. sulle «quote rosa» nei CdA e nei collegi sindacali” del 18 febbraio).
Una posizione che ci identifica, quindi, come categoria, tra i più entusiasti sostenitori delle quote di genere nei CdA e nei collegi sindacali delle società.

Credo sia oggettivamente innegabile che la presenza femminile, nelle posizioni di vertice della politica, del settore pubblico e del settore privato, sia del tutto insoddisfacente.
Se la soluzione a questo squilibrio italiano è l’introduzione delle quote di genere, ebbene: che sia.
Si potrebbe osservare che il dirigismo sociologico insito in questo tipo di strumento dovrebbe ragionevolmente principiare dall’ambito della rappresentanza politica (quote di genere sugli eletti), per poi eventualmente estendersi al settore pubblico (quote di genere sugli alti dirigenti pubblici), lasciando in ultimo il settore privato (quote di genere su amministratori e sindaci di società di capitali).

Del pari, si potrebbe osservare che, in un Paese come l’Italia, caratterizzato da una drammatica staticità nel ricambio della classe dirigente, prima ancora che da una carenza di un genere nei posti di comando, sarebbe forse più logico concepire delle quote, se proprio delle quote devono essere concepite, in chiave generazionale: è fuori di dubbio che se si aprissero spazi per i quarantenni e i trentenni di oggi, il problema di un maggior bilanciamento nella rappresentanza di entrambi i sessi risulterebbe risolto anch’esso, attesa l’assai più ampia presenza femminile professionalmente qualificata, tra le giovani leve, in tutti i settori della società civile.
Tra l’altro, quote generazionali, in luogo di quote di genere, eviterebbero di acuire la sempre più forte sensazione, nel maschio italiano trentenne o quarantenne, di essere il vero vaso di coccio di questa benedetta società: è giovane e quindi ai margini di un sistema gerontocratico; è uomo e quindi privo della biasimevole, ma a quanto pare gettonata opzione “vendo il mio corpo”, perché tanto nessuno se lo compra ed è già tanto trovare a chi regalarlo.

Battute a parte, trovo che le osservazioni in precedenza formulate meritino sostanziale condivisione: sono osservazioni corrette.
Trovo però anche che questo Paese sia già troppo malato di “benaltrismo”, per prestarci anche noi a questo tipo di gioco.
L’introduzione delle quote di genere nei consigli di amministrazione e nei collegi sindacali delle società di capitali, pur criticabile sotto molti punti di vista, può essere un modo concreto per avviare uno smottamento che, auspicabilmente, vada poi al di là di questo ambito, sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo.
È quindi positivo che, ancora una volta, il Consiglio nazionale dei commercialisti si caratterizzi per una posizione coraggiosa di apertura all’innovazione.

L’unica cosa che non capisco, ma probabilmente è un mio limite, è come sia possibile che il medesimo consesso che ritiene improponibili limiti inderogabili al cumulo degli incarichi di collegio sindacale in società di diritto privato, ritenga al tempo stesso auspicabili, con riferimento anche a quelle medesime società, quote di genere inderogabili per le scelte in merito alla loro composizione.

Se è considerato sacro, in questi contesti privatistici, il diritto del singolo professionista di organizzare la propria attività come meglio crede, senza lacci e laccioli ulteriori alla sua capacità, perché analoga sacralità non viene ravvisata nel diritto di un’assemblea di azionisti di mettere negli organi di amministrazione e controllo chi pare a loro, senza lacci e laccioli ulteriori alla ricerca di persone capaci?

E se per caso, per colpa di qualcuno dei temuti emendamenti, la quota di genere inderogabile del 30% venisse trasformata in soglia di criticità e la sanzione automatica della decadenza passasse al criterio della autovalutazione da parte della società stessa?
Quale sarebbe il giudizio del Consiglio nazionale sulla pregnanza della novità introdotta?
È stato fatto il massimo di quello che si poteva fare, oppure è un passo avanti, ma si è persa un’occasione per fare di più?

Una delle cose belle della vita è proprio che è un continuo gioco delle parti.

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