Niente aggravante mafiosa se il consulente non è consapevole
Perché scatti, per il consulente, l’aggravante per mafia, così come stabilita dall’art 7 della L. 203/91, è necessario provare che egli fosse consapevole di favorire gli affari illeciti della cosca. Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza n. 13099 di oggi, 30 marzo 2011.
Nel caso di specie, il Tribunale del riesame ha confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal GIP nei confronti di un consulente per i reati di riciclaggio aggravato continuato in concorso, fiscali e fallimentari, tutti con l’aggravante di cui all’art. 7 della L. 203/91. Il professionista era fiduciario di un cliente che a sua volta agiva su mandato di un clan della ’ndrangheta, in due ditte, una con sede in Italia e una con sede in Svizzera e filiale in Austria: il sistema messo in atto era quello delle c.d. “frodi carosello” e consisteva nell’emissione di false fatture di vendita di materiale (microprocessori) inesistente, che producevano apparenti crediti d’imposta IVA.
La difesa del professionista ricorre in Cassazione, deducendo, tra gli altri, vizio di motivazione sulle esigenze cautelari e violazione di legge in ordine alla circostanza aggravante di cui all’art. 7 della L. 203/91.
La Cassazione giudica il ricorso parzialmente fondato. Infatti, per la Suprema Corte, in relazione alle esigenze cautelari, il giudice di merito ha dato adeguatamente, logicamente e correttamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico del ricorrente.
Diverso il giudizio sull’aggravante mafiosa prevista dall’art. 7 della L. 203/91. Per la Cassazione, in questo caso è necessario provare che il consulente, con la sua condotta, anche se primariamente volta all’utile personale, fosse consapevole di favorire anche l’attività della cosca.
Se, infatti, nel caso di specie non è messo in discussione il ruolo, assunto dal professionista, di riciclatore di denaro della cosca, si assume dalla difesa del ricorrente che non fosse consapevole di ciò, agendo nel suo ruolo professionale, sia pure distorto, nel solo interesse del proprio cliente. La Suprema Corte giudica tale rilievo fondato, osservando che “resta insuperabile l’osservazione che tutto ciò che” il professionista “ha fatto, sia pur di illecito, lo ha fatto in favore del cliente, potendo ignorare le connessioni di costui con la malavita organizzata”. Deve essere quindi concretamente provato che il professionista fosse consapevole non solo di favorire gli affari illeciti del cliente, come nel caso di specie, ma anche quelli della cosca mafiosa.
La Cassazione ha quindi stabilito che l’ordinanza va annullata sotto il profilo della sussistenza, non adeguatamente motivata, dell’aggravante dell’art. 7 della L. 203/91. (Redazione)
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