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LETTERE

Tito Boeri puntualizza sull’affaire «dinastie professionali»

Martedì, 19 luglio 2011

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In relazione alla lettera del Dottor Angelo Di Leva pubblicata il 12 luglio scorso (“Caro Boeri, nel parlare di professioni ci vuole meno superficialità”), riceviamo dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti, per conto del professor Tito Boeri, la richiesta di pubblicazione delle sue affermazioni riportate nell’articolo uscito su La Repubblica lo scorso 23 giugno.


Da Tito Boeri, “Le liberalizzazioni perdute”, La Repubblica, 23 giugno 2011
“Quel poco che è stato fatto, dunque, sembra servire nell’abbassare i prezzi e migliorare la qualità dei servizi. Ma rimane ancora tantissimo da fare e si rischia di tornare indietro. Come verrà documentato ad un convegno che si terrà il 4 luglio in Bocconi, molte professioni continuano ad essere rette da meccanismi di cooptazione di tipo dinastico, in cui aumenta di molto la probabilità di entrare nella professione per chi ha lo stesso cognome di chi è già iscritto all’ordine. Inoltre queste dinastie professionali sono in molti casi associate a distorsioni nella qualità dei servizi offerti ai cittadini. Ad esempio nelle province dove le omonimie incidono maggiormente sulle iscrizioni all’albo dei commercialisti, l’evasione fiscale è più alta. Laddove le omonimie incidono maggiormente sulla selezione dei consulenti del lavoro, ci sono più contenziosi lavorativi, spesso riflesso di un’incapacità di ricomporre le controversie per via extra-giudiziale. Insomma sembrerebbe proprio che la trasmissione ereditaria dei posti in molte professioni corrisponda più a un trasferimento di rendite ai danni degli utenti, famiglie e imprese, che a un trasferimento di conoscenze nell’ambito della stessa famiglia. Con la benedizione degli ordini che continuano ad inserire nelle commissioni d’esame (quelle che decidono chi si può iscrivere agli albi) persone che esercitano queste attività e che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti di loro. Un meccanismo perverso che noi docenti universitari conosciamo bene perché lo abbiamo visto troppo spesso operare nei concorsi accademici”.


***


Ben volentieri abbiamo dato seguito a questa cortese richiesta, così come, sempre aperti al confronto, abbiamo nei giorni scorsi intervistato i ricercatori della Fondazione che avevano curato la famosa ricerca sulle “dinastie professionali” (“«Dinastie professionali», la parola agli autori della ricerca” del 14 luglio), apprezzando peraltro il riconoscimento, da parte loro, di un errore nella raccolta ed esposizione dei dati, come quello del superamento dell’esame di Stato da parte del 100% dei candidati in quel di Catania nel 2008.
Errore non da poco per l’immagine della categoria e in particolare dei colleghi catanesi, atteso che l’eccezionalità del dato errato ha fatto sì, non a caso, che venisse citato in apertura di un pezzo di Gianantonio Stella in prima pagina del Corriere della Sera.

Per il resto, pur apprezzando il desiderio del professor Tito Boeri di evidenziare che le sue dichiarazioni sono, dal suo punto di vista, non ostili alle libere professioni e ai commercialisti in particolare, così come le aveva tratteggiate nella sua focosa lettera il Dottor Di Leva, possiamo al massimo convenire che mancava l’intenzione di insinuare, ma non che, ultra vires, mancassero pure le insinuazioni stesse.

Anche tralasciando l’approssimazione che trasforma in dinastie parentali tutti gli omonimi (e qui, caro professore, merita allora di essere letta anche la lettera del dottor Mauro Marelli pubblicata lo scorso 6 luglio, “Cognomi ed evasione: anch’io faccio parte di una «famiglia allargata»”), una correlazione tra omonimie dei commercialisti e quantità di errori nella compilazione delle dichiarazioni dei redditi e nella predisposizione dei bilanci può sicuramente avere per oggetto un giudizio tecnico sul livello della competenza professionale.
Una correlazione costruita, invece, sul livello dell’evasione ha inevitabilmente per oggetto un giudizio valoriale sul livello della propensione all’etica nello svolgimento della professione, applicato per di più, nelle intenzioni dinastiche della ricerca, al rapporto padre-figlio.

Ed è per questo, più che per altro, che l’intero popolo degli oltre 113.000 commercialisti (siamo una casta, ma cresciamo di numero con una velocità tale che è difficile starci dietro) si è legittimamente indignato.
Abbiamo fior di mele marce tra noi, ma anche fior di procedimenti disciplinari e, ancor più oggi che cresce e acquisisce peso una nuova generazione di professionisti, ci sentiamo una professione priva non soltanto di barriere all’ingresso, ma anche priva di barriere all’uscita.

I commercialisti, salvo poche eccezioni, credono nel modello ordinistico; ma, sia chiaro, credono nel loro modello: niente numeri chiusi, niente limitazioni geografiche, pochi drammi e maniche di camicia tirate su se le tariffe minime sono derogabili, massima apertura alla pubblicità (incrociando le dita sul buon gusto), possibilità già oggi esistente di avviare il tirocinio durante l’università e ferma convinzione della necessità di modelli societari per agevolare le aggregazioni professionali, tanto da presentare un apposito disegno di legge che la politica non ha ancora ritenuto di affrontare con adeguata serietà.
Sanno perfettamente che molti ordinamenti professionali necessitano di adeguamenti che li avvicinino al loro, così come hanno guardato con assoluta perplessità la vera e propria controriforma che ha tentato (sta tentando) l’avvocatura, consapevoli che è proprio da questi approcci medievali che possono poi arrivare altrettanto sconcertanti reazioni antiordinistiche, in un eterno “tira e molla” che prevede tutto tranne il buon senso e l’equilibrio.

Ciò nondimeno, avranno sempre pari perplessità a discutere di riforme con chi dimostra palesemente di non conoscere le mille sfumature che caratterizzano il mondo che pretenderebbe di voler riformare.
Perché riformare senza conoscere, significa al più distruggere.
E che la conoscenza del fenomeno sia assai lacunosa, lo dimostrano anche piccoli dettagli, come il riferimento al fatto che la partecipazione degli Ordini nelle commissioni d’esame, insieme a professori universitari, sarebbe un elemento di pericolo per gli aspiranti professionisti.

Qualunque giovane professionista o ancora aspirante tale sa perfettamente che, se ci sono dei componenti di commissione d’esame “pericolosi”, quelli sono proprio gli accademici.
Perché, se capita ad esempio un docente di gestione dei cicli produttivi integrati, per quanto bravo sia a trattenersi (e per fortuna la maggior parte è dotata di questo buon senso), alla fine tende a fare domande sulla sua materia e, se non c’è in commissione qualche professionista autorevole e rispettato, poco conta a quel punto che, in tre anni di tirocinio professionale e probabilmente anche per i successivi quaranta di professione, il 99,99% dei candidati non abbia avuto e non avrà nulla a che fare con queste problematiche.

Spazio per confrontarsi ce n’è e non soltanto con i commercialisti.
Il punto è capire se c’è davvero questo interesse, o è soltanto una nostra utopia.


Enrico Zanetti
Direttore Eutekne.Info

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