Per uscire dalla crisi, serve un nuovo progetto di politica economica
Egregio Direttore,
siamo ai tempi supplementari, la partita sta per finire e temo che continui ad essere obnubilata dall’emergenza qualsiasi strategia di lungo periodo. Come da lei osservato già da tempo, siamo un Paese dove ormai è ben chiaro che la navigazione a vista ha finito per sostituire del tutto qualsiasi progetto di politica economica capace di guardare la luna e non il dito di chi la indica. Le risposte dell’Italia alla crisi, e non solo quelle del nostro Paese, non possono basarsi su aiutini da “Domenica in” o rivisitazioni edulcorate del neoliberismo. C’è bisogno di uno slancio nella riprogettazione culturale “to understand the disaster” (espressione dell’economista Robert Solow), in grado di spezzare le catene con soluzioni stereotipate e di valorizzare punti di vista alternativi, soluzioni e approcci nuovi. La speranza è “che, anche se le riforme dell’economia sono a un punto morto, quelle della scienza economica possano progredire” (Joseph Stiglitz). È impensabile che in un’orchestra, chiamata ad esibirsi su palcoscenici europei ed internazionali, i vari elementi suonino degli spartiti diversi ed è ancora più importante la funzione del direttore. Lo stesso Stiglitz, premio Nobel per l’Economia nel 2001, ha evidenziato la mancanza di istituzioni capaci di gestire il processo di globalizzazione, quel fenomeno che lui definisce la global governance senza global government, e l’effetto che tale vuoto può avere in termini di deregolamentazione, privatizzazioni, liberalizzazioni, dinamiche dei mercati finanziari e di circolazione dei capitali.
La crisi iniziata nel 2008 è strutturale e richiede cambiamenti e processi di ristrutturazione di più ampio respiro rispetto a quelli della grande depressione degli anni 30 del secolo scorso. Nel 2009 il PIL mondiale ha registrato valori negativi svelando come la crisi rappresentasse l’esaurimento del modello di sviluppo neoliberista. I modelli di sviluppo affermatisi a livello mondiale hanno come loro componenti l’alterazione della distribuzione del reddito e l’accentuazione delle disuguaglianze. La cosiddetta “crescita senza lavoro” e la conseguenziale jobless recovery, si sostiene siano l’inevitabile nuova normalità, non comprendendo forse che se così dovesse davvero essere saremmo di fronte ad una vera e propria “crisi di civilizzazione”, come definita dal sociologo Luciano Gallino.
Il paradosso è evidente se solo si pensa al fatto che, nell’ambito di politiche economiche animate da ortodossia monetarista e neoliberista, l’intervento pubblico è stato rispolverato in un battito di ciglia, sufficiente a salvare dal collasso il sistema bancario e finanziario internazionale. Tale paradosso si era già verificato nel 1997-1998 in seguito alla crisi finanziaria del Sud-est asiatico. Sempre Stiglitz afferma che, attesa la natura indispensabile del predetto intervento pubblico, necessitato dall’emergenza, “dobbiamo riconoscere che non c’è stato il tipo di riforma che sarebbe stato necessario per rafforzare in modo sostanziale la stabilità finanziaria globale”. Il paradosso sta nel fatto che si è impiegata una quantità enorme di risorse finanziarie per il salvataggio della finanza e del sistema bancario e, quando poi livelli incredibili di disoccupazione, aumento delle disuguaglianze, precarizzazione del mercato del lavoro, caduta dei consumi e del tenore di vita dei ceti medi imporrebbero misure aggiuntive per il sostegno dello sviluppo, della crescita e degli investimenti, si gioca la carta dell’elevato debito pubblico. Si sorvola sul fatto che un tale livello di deficit è stato raggiunto anche a seguito dei salvataggi finanziari che hanno finito per trasformare un debito privato in un debito pubblico. Stiglitz sostiene che ciò che si è perseguito è “di abbandonare le regole ordinarie del capitalismo, di socializzare le perdite, mentre i profitti sono rimasti privatizzati” ed aggiunge che gli evidenti effetti di tutto questo sono inevitabilmente “i tagli agli investimenti vitali ed ai programmi sociali”.
Le economie e i mercati sono cambiati, continuano a farlo e non esistono approcci perfetti o che possano rimanere costanti nel tempo, il tutto senza pregiudizi né schizzinosi preconcetti di derivazione politica. È ora di transustanziare i giudizi sulla globalizzazione e sul “mercatismo” (un dogma suicida secondo il nostro Ministro Tremonti), sul ridimensionamento della finanza sfrenatamente innovativa e della sua deregolamentazione, sul recupero dell’economia reale in scelte di politica economica coraggiose, coerenti e improntate all’etica, secondo le indicazioni del professore Amartya Sen: basterebbe ricordare che Adam Smith era un docente di filosofia morale. Questa volta davvero non possiamo sperare di uscire dalla crisi con condoni o con i rialzi dei titoli delle aziende legate alle sorti delle vicende libiche. Esaurita quella spinta, cos’altro dovremo attendere per rispolverare l’adagio mors tua vita mea? I passi di Teseo sono sempre più vicini.
Marco Cramarossa
Presidente UGDCEC di Bari e Trani
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