E allora facciamola questa Agenzia delle uscite
La provocazione della costituzione di un’Agenzia delle uscite, che faccia pendant con quella delle Entrate, è piaciuta un po’ a tutti (si veda “A questo Paese serve anche un’Agenzia delle uscite” del 13 dicembre 2011).
Un modo come un altro per richiamare l’attenzione sul pericoloso disequilibrio che si sta sempre più evidenziando, in termini di attenzione e determinazione, tra caccia e punizione di coloro che rubano alla collettività omettendo di versare imposte in misura proporzionata alla loro capacità contributiva e coloro che rubano alla collettività dissipando risorse pubbliche o comunque percependole indebitamente. Alla faccia del “benaltrismo”, questo pericoloso disequilibrio, certamente foriero di creare, già nel breve periodo, un torbido clima di coercizione sociale, anziché uno auspicabile di coesione sociale, lo dobbiamo risolvere non abbassando il livello di guardia della lotta all’evasione, bensì alzando ad un pari livello di intensità il livello di guardia della lotta alla corruzione e agli sprechi.
Come si fa? Semplice: trasformando la storica e ormai datata Corte dei Conti in una frizzante e potentissima Agenzia delle uscite, così come’è stato mirabilmente fatto in questi anni con la trasformazione degli Uffici delle Imposte in Agenzia delle entrate. Sin qui la provocazione, d’accordo. Come si fa, però, in concreto, a trasformare la Corte dei conti in una Agenzia delle uscite che non debba vergognarsi, al cospetto della sua sorella maggiore, di portare questo nome? Ancora più semplice: le si attribuiscono le stesse risorse e, soprattutto, gli stessi poteri.
Innanzitutto, dunque, circa 3 miliardi di euro di fondi disponibili per strutturarsi, ramificarsi nel territorio e fare pure campagne pubblicitarie contro la corruzione e gli sprechi. Dopodiché, tanto per cominciare, si attribuisce efficacia esecutiva agli atti con cui la Corte dei conti, novella Agenzia delle uscite, quantifica un presunto danno erariale commesso dall’amministratore Tizio, dal dirigente Caio, dal consulente Sempronio o dal falso invalido Mevio: decorsi 60 giorni, pronti via con ipoteche e fermi amministrativi; poi, decorsi inutilmente altri 180 giorni, via con la procedura esecutiva.
E se intanto il malcapitato fa ricorso, perché ritiene ingiusta la contestazione, o quanto meno sproporzionata la somma che gli viene richiesta? Per intanto, il 30% lo paga comunque; e, se poi salta fuori in Tribunale, mesi o anni dopo, che aveva ragione lui, gli si restituiranno i soldi quando si potrà. E, perché no, anche una bella disciplina dei “posti di lavoro di comodo”, per effetto della quale, in presenza di un determinato numero di giorni di assenza per malattia, si presume che il pubblico dipendente sia in realtà un lavativo e, pertanto, si prevede un ammontare massimo di retribuzione sopra la quale non può andare, anche se i contratti collettivi prevedono importi superiori? Naturalmente, andrebbero previste delle cause di disapplicazione della disciplina (ad esempio, i casi in cui il dipendente ha avuto almeno dieci figli da mantenere nell’ultimo biennio) e andrebbe comunque consentita la possibilità che il dipendente presenti apposita istanza al Direttore dell’Agenzia delle uscite per dimostrare che, nonostante tutto, non è un lavativo e gli è stato oggettivamente possibile recarsi al lavoro per cause a lui non imputabili.
Non dimentichiamo poi opportuni obblighi di comunicazione telematica all’Agenzia delle uscite per professori universitari, magistrati, primari ospedalieri e altri alti dirigenti che, fatalità, si ritrovano in pubbliche amministrazioni nelle quali risultano assunti anche coniugi, parenti e affini: la famosa “comunicazione telematica dei posti di lavoro assegnati ai familiari”, con integrale trattenuta della busta paga nel caso in cui quella del familiare assegnatario risulti superiore al valore normale attribuibile alla sua prestazione lavorativa.
Infine, ma in realtà una fine potrebbe non esserci mai, il colpo da maestro: lo “sprecometro”.
Uno strumento geniale che stima le risorse pubbliche dissipate da ciascun politico e dirigente pubblico, con inversione della prova in capo a quest’ultimo, calcolando le somme da contestargli sulla base della durata delle sue pause caffè, dell’incuria nella pulizia del suo ufficio e di fattori standardizzati su base statistica, elaborati individuando gruppi omogenei di dipendenti pubblici, a cominciare dal fattore della territorialità (in alcune aree gli sperperi sono maggiori che in altri) e da quello del nucleo familiare (perché, più uno tiene famiglia, e più e lecito presumere che ceda alla tentazione). È indubbio che, a pensarci bene, si corre il rischio che, così, più nessuno abbia voglia di fare il politico, il dirigente o il dipendente pubblico, sentendosi considerato malversatore fino a prova contraria e avvertendo una totale mancanza di adeguate tutele rispetto allo strapotere di un’Agenzia delle uscite che, per quanto istituzione del Paese votata a fare del suo meglio, è comunque un apparato burocratico che può sbagliare come tutti.
Tuttavia, considerato che ci sono ancora in questo Paese “pazzi” che mandano avanti piccole o grandi imprese e studi professionali, nonostante tutto questo e molto altro sia per loro già realtà, è evidentemente un rischio che si può correre.
Si ride per non piangere, signori: si ride per non piangere.
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