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LETTERE

Svincoliamo la Legge fallimentare dalla parola «fallimento»

Mercoledì, 27 giugno 2012

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Egregio Direttore,
la risoluzione della crisi d’impresa, nell’ottica della legalità, della trasparenza e dell’efficienza appare il motivo conduttore del continuo aggiornamento della nostra Legge fallimentare.

Non possiamo non accogliere con grande soddisfazione le ultime proposte di modifiche apportate dal DL Sviluppo.
Il fatto di ribadire il ruolo propositivo “privatistico” nelle procedure concorsuali alternative al fallimento, che vede l’imprenditore in crisi attore principale del proprio piano di risanamento, i creditori di fatto supremi giudici nel giudizio di effettiva attuabilità dello stesso e l’Autorità giudiziaria massimo vigile del rispetto della legalità, dà al commercialista una rinnovata importanza di ruolo e di responsabilità.

Se il commercialista alcuni anni fa era chiamato, nel ruolo di curatore fallimentare, ad individuare l’effettivo periodo temporale in cui si era manifestato lo stato di insolvenza, oggi in qualità di consulente d’impresa è chiamato, se possibile con una maggiore responsabilità, a determinare e manifestare all’imprenditore con incisiva puntualità lo stato di crisi in cui versa l’azienda. Tale responsabilità professionale e morale si amplifica per le aziende sprovviste di collegio sindacale.

La tempestiva comunicazione dello stato di crisi e gli incisivi strumenti forniti dalla Legge fallimentare permettono sempre più spesso il salvataggio di aziende produttive importanti, per il ruolo che ricoprono all’interno dell’economia in cui operano e la salvaguardia dei posti di lavoro e del know out aziendale.

Le ultime modifiche che prendono forma nel DL Sviluppo tendono sicuramente a rafforzare questo orientamento, togliendo dal campo alcune disfunzioni che spesso erano di ostacolo all’effettivo utilizzo degli strumenti concorsuali alternativi al fallimento.

Ora, secondo il mio modesto parere, rimane un ultimo ma grave difetto per giungere al pieno utilizzo degli strumenti messi a disposizione dal Legislatore per il superamento, quando ancora è fattibile, della crisi d’impresa: l’elemento psicologico.
Tale elemento è dato dal fatto che le norme applicabili al concordato preventivo, agli accordi di ristrutturazione dei debiti, ai piani di risanamento attestati, alla transazione fiscale sono all’interno di un contenitore che si chiama Legge fallimentare.

Tale contenitore, un po’ per l’etimologia stessa della parola che lo contraddistingue, un po’ per il retaggio di quello che effettivamente era la Legge fallimentare ante riforme (legge digerita nel suo ultra-sessantennale immobilismo da tutta una variegata platea di operatori), non ha certamente l’appeal che meriterebbe.

La composizione stessa degli strumenti contenuti all’interno della Legge vede ormai il fallimento come unico, importante ma “residuale” estremo strumento non finalizzato alla risoluzione della crisi d’impresa, ma garante del soddisfacimento in via esecutiva generale secondo la par conditio creditorum.

Cambiare nome alla Legge fallimentare e rubricarla con chiari riferimenti alla risoluzione della crisi d’impresa, elemento ormai prevalente nei suoi contenuti, permetterebbe una sua più puntuale identificazione e un suo più facile utilizzo svincolato dai pregiudizi che spesso l’etimologia della parola “fallimento” può generare.


Marco Santoni
Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Viterbo

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