È ora di combattere anche l’evasione fiscale di Stato
Caro Direttore,
che cosa sia l’evasione fiscale lo sappiamo tutti: il violare una regola di diritto tributario. Sappiamo pure tutti che tale espressione è tipicamente rivolta al contribuente. Quello a cui invece non pensiamo – o meglio, lo abbiamo ben presente, ma non nelle sue ultime conseguenze – è che le norme di diritto tributario non pongono obblighi solo al contribuente, ma anche allo Stato, nella sua triplice veste di Legislatore, di Amministrazione finanziaria e, per come va di moda in questi tempi, di “amministratore-legislatore”. Da qui il seguente corollario: se chi viola le regole è il contribuente, occorre parlare di evasione fiscale del contribuente; se chi le viola è lo Stato, occorre parlare di evasione fiscale di Stato.
È curioso che, nel nostro Paese, l’evasione fiscale del contribuente sia punita sempre più severamente: interessi, sanzioni pecuniarie, aggi, sequestri, confische, galera, in un crescendo sanzionatorio che non ha pari in Europa e che è funzione diretta del dissesto dei nostri (forse sarebbe meglio dire “loro”) conti pubblici. Non mi stupirei se qualcuno proponesse la reintroduzione della crocifissione o della lapidazione per gli evasori. È curioso, dicevo, che ciò accada nei confronti del contribuente, quando l’evasione fiscale di Stato, invece, è pressoché del tutto impunita.
Gli strumenti di punizione però ci sono, solo che non vengono esercitati.
Prendiamo, quale esempio dell’evasione fiscale dello Stato Legislatore, le patrimoniali “spezzatino”: imposte ordinarie, istituite con decreto legge, in violazione dello Statuto del contribuente; retroattive, in spregio dello stesso Statuto; discriminatorie a danno degli investimenti transfrontalieri, alla faccia del diritto dell’Unione. Ebbene, qui la risposta è (e deve essere) una sola: dichiarare, pagare, chiedere il rimborso, impugnare il rifiuto espresso o tacito di rimborso davanti alle Commissioni tributarie, sollevare la questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia e, come subordinata, quella di legittimità costituzionale dinanzi alla Consulta. Non dev’essere, tuttavia, un ricorso isolato fatto da qualche luminare; devono essere decine, centinaia, migliaia, forse decine di migliaia di istanze, di ricorsi, di questioni pregiudiziali.
Lo stesso vale per la mediazione tributaria, che fa accapponare la pelle. Nei Paesi civili, Francia in testa, si discute e si cerca l’accordo su una proposta di accertamento, prima dell’emanazione dell’atto con cui lo Stato esercita la sua supremazia sul cittadino. Da noi si manda l’accertamento, per di più impo-esattivo, massima espressione della prepotenza statale, e poi si pretende – per legge – che il contribuente negozi, praticamente con la pistola alla tempia, senza poter adire direttamente il giudice. Anche qui, basta attendere una piccola controversia bagatellare, meglio se in materia di IVA, andare diretti al giudizio saltando la mediazione e poi, di fronte alla sicura eccezione di inammissibilità del Fisco, chiedere al giudice tributario di sollevare la questione ai sensi dell’art. 47 della Carta Ue sul giusto processo e, in subordine, dinanzi alla Corte costituzionale.
Prendiamo, quale esempio dell’evasione fiscale dello Stato “amministratore-legislatore” i vari provvedimenti attuativi che vengono emanati con ritardo rispetto al termine di legge (e quindi dello Statuto) o con contenuto che va oltre il dettato legislativo (ad esempio, le norme sulle società di comodo). Anche qui, la risposta è (e deve essere) una sola: impugnare il provvedimento generale dinanzi al giudice amministrativo. Qui, il ricorso può essere solo uno, purché ben fatto.
Prendiamo, quale esempio dell’evasione fiscale dello Stato amministratore i diversi accertamenti che vengono costruiti su basi cervellotiche, con teoremi di riqualificazione delle fattispecie a dir poco azzardati. Non basta impugnarli dinanzi al giudice tributario; occorre attendere la sentenza favorevole e poi chiedere il risarcimento del danno all’Amministrazione e, se vi sono i presupposti, anche al singolo funzionario.
Il principio del “chi sbaglia paga” ha un suo fondamento di giustizia; tuttavia, esso vale sempre per il cittadino (che è sempre punito, salvi quei rarissimi casi in cui riesce a dimostrare l’incertezza della norma ed evitare le sanzioni) e quasi mai per lo Stato. È ora di finirla di accettare di vivere in un paese in cui lo Stato, nelle sue diverse manifestazioni, è “impunito”. È ora di combattere anche l’evasione fiscale di Stato.
Stefano Marchese
Consigliere CNDCEC delegato alla Deontologia
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