Gratuità della gestione possibile anche nelle spa
Ricapitolate le principali indicazioni in materia di diritto al compenso degli amministratori di spa
Il Tribunale di Milano, nella sentenza del 9 gennaio scorso, ha precisato come, dalla disciplina degli artt. 2364 comma 1 n. 3 e 2389 c.c., che riservano alla competenza dell’assemblea o al contratto sociale la determinazione del compenso dovuto all’amministratore per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico gestorio, non derivi la necessaria onerosità dello stesso, trattandosi di materia derogabile dalla diversa volontà dei soci espressa nell’atto costitutivo o dalla assemblea, che, del tutto legittimamente, potrebbe prevedere la gratuità delle relative funzioni.
Ciò deriva dalla natura del rapporto intercorrente tra la società di capitali e il suo amministratore che, come chiarito dalle Sezioni Unite n. 1545/2017, costituisce un rapporto societario di immedesimazione organica che fa dell’amministratore, a cui è affidata la gestione stessa dell’impresa, il “vero egemone dell’ente sociale”, e che, non essendo equiparabile al rapporto derivante dal contratto di prestazione d’opera o dal mandato, è sottratto all’ambito applicativo dell’art. 36 Cost., con conseguente disponibilità e rinunciabilità del compenso.
È, quindi, legittima la clausola statutaria che, in deroga alle ricordate previsioni normative, sancisca la gratuità delle funzioni di amministratore (Cass. n. 285/2019 e Cass. SS.UU. n. 1545/2017). Così come potrebbe essere l’assemblea, del tutto legittimamente, a prevedere la gratuità delle relative funzioni (indicazione che sembra richiamare quanto affermato da Cass. n. 27335/2019, secondo cui la clausola che affida all’assemblea la “possibilità” di riconoscere un compenso agli amministratori non postula l’obbligatorietà dello stesso).
Rispetto a tali precisazioni risulta fondamentale e decisivo l’esame della disciplina contenuta nello statuto della società, a cui l’amministratore, accettando la nomina, aderisce. Nel caso di specie, la clausola statutaria così disponeva: “Ai membri del consiglio di amministrazione spetta un compenso determinato dall’assemblea all’atto della nomina. La remunerazione degli amministratori investiti della carica di presidente, amministratore o consigliere delegato è stabilita dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale, nel rispetto dei limiti massimi determinati dall’assemblea. L’assemblea può determinare un importo complessivo per la remunerazione di tutti gli amministratori, inclusi quelli investiti di particolari cariche”.
Rispetto a tale testo, il Tribunale di Milano sottolinea come la determinazione dei compensi del Presidente del CdA non possa dirsi provata facendo leva:
- su un verbale di CdA che, oltre a parlare di mere “proposte di compensi” da sottoporre all’assemblea, risulta privo di qualsiasi sottoscrizione e, quindi, non riferibile all’organo gestorio (peraltro, con una inversione procedurale rispetto alle previsioni statutarie che assegnano al CdA il compito di stabilire il compenso dovuto specificamente per la carica di Presidente, su parere del Collegio sindacale, nei limiti del massimo prestabilito dall’assemblea);
- su una deliberazione assembleare “nulla”, perché priva della sottoscrizione del Presidente e del segretario e non trascritta nel relativo libro.
Tuttavia, essendo il diritto al compenso riconosciuto dallo statuto della società, ove gli organi sociali deputati non abbiano assolto all’onere di determinarne l’entità, spetta al giudice, su domanda dell’amministratore, provvedervi in via equitativa, commisurandolo alla quantità e alla qualità di attività effettivamente svolta e al risultato conseguito dalla società (cfr. Cass. nn. 23004/2014 e 8897/2014).
A tali fini rilevano sicuramente le allegazioni dell’amministratore, che, nel caso di specie, attenevano all’attività svolta come Presidente del CdA e dell’assemblea, ma anche il risultato della gestione che, sempre nel caso in questione, risultava fortemente negativo.
Non può, invece, essere utilizzato come parametro rilevante per la determinazione del compenso quello fissato in un patto parasociale, trattandosi di un accordo che non vincola in alcun modo la società e che si fonda su valutazioni che prescindono dai criteri di liquidazione equitativa dell’effettiva quantità e qualità dell’attività svolta e del risultato ottenuto dalla società.
A fronte di ciò, inoltre, in caso di cessazione dell’incarico, la società alla quale è richiesto il pagamento del compenso non può avvalersi dell’eccezione di inadempimento, ex art. 1460 c.c., per paralizzare la pretesa, trattandosi di rimedio di autotutela contrattuale a effetto sospensivo temporaneo dell’efficacia del contratto, non invocabile dai contraenti dopo che la cessazione del rapporto abbia reso definitivo l’inadempimento delle prestazioni correlate.
Se il rapporto contrattuale è già cessato, il rimedio di autotutela contrattuale dall’inadempimento delle prestazioni corrispettive non può più essere invocato e ogni questione relativa all’inadempimento definitivo del vincolo dovrà essere risolta in applicazione della disciplina della risoluzione del contratto e potrà essere solo fonte del diritto al risarcimento del danno.
La società, quindi, non può fare altro che invocare il diritto al risarcimento del danno e, eventualmente, sollevare eccezione di compensazione ove questo sia stato già liquidato.
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