Sulla responsabilità la Cassazione perde la bussola
Segnali a dir poco inquietanti, per i commercialisti italiani, giungono dalla Corte di cassazione.
Come evidenziato nell’articolo di Roberta Vitale, la sentenza n. 9916 del 26 aprile 2010 condanna un commercialista al pagamento del 50% delle sanzioni applicate ad un suo cliente dall’Erario, per effetto dell’esposizione di costi risultanti non inerenti e non documentati (e, quindi, indeducibili) nella dichiarazione dei redditi presentata dal professionista.
Non è la prima volta che una sentenza condanna un commercialista a rifondere il proprio cliente per errori commessi nello svolgimento dell’attività di assistenza tributaria e presentazione delle dichiarazioni.
E non sarà certo l’ultima, ci mancherebbe: se si sbaglia, si sbaglia.
E, giustamente, si paga.
Quello che però è davvero stupefacente in questa sentenza è che il commercialista sembrerebbe venire condannato a risarcire il cliente a prescindere dal fatto che il comportamento da cui le sanzioni sono scaturite fosse o meno concordato con il cliente stesso.
Si legge in particolare che un simile accordo, anche laddove fosse provato, “comunque sarebbe stato contrario alla legge ed alle regole professionali. Il commercialista, infatti, era comunque tenuto dal codice di deontologia professionale ad un comportamento corretto ed era pertanto responsabile per il suo operato”.
Più rileggo questo passaggio e più mi convinco che l’aggettivazione “stupefacente”, poc’anzi utilizzata per questa pronuncia della Corte di cassazione, è forse troppo morigerata.
Ma come?
Proprio la giurisprudenza della Cassazione ha in passato negato con decisione che l’attività di consulenza e assistenza tributaria fosse riconducibile al novero delle attività riservate a professionisti con competenze economico-giuridiche che fossero in possesso di uno status giuridico riconosciuto dallo Stato.
E ora che fa la Cassazione?
Dopo aver affermato che è possibile prescindere dall’affidamento di queste attività a professionisti soggetti a rigide regole deontologiche, sembrerebbe ora affermare che, nel caso in cui ci si avvalga volontariamente di un commercialista anziché del primo sedicente consulente tributario che passa, queste rigide regole deontologiche sono imprescindibili al punto che il commercialista risponde per danni nei confronti del cliente anche se il suo operato era stato previamente concordato con lui?
Stiamo scherzando o cosa?
Se c’era l’accordo, quale danno può mai essere stato provocato a chi era d’accordo?
Se l’accordo non ci poteva essere perché la deontologia è imprescindibile anche nella consulenza tributaria, perché allora viene permesso di svolgere questa attività anche a soggetti che non hanno obblighi deontologici?
I commercialisti italiani non temono responsabilità e conseguenti oneri, però sanno bene che agli oneri si accompagnano gli onori.
Niente onori, niente oneri.
Insomma: cerchiamo di non prenderci in giro, per favore.
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