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FISCO

Effetti fiscali incerti per la cessione del marchio da parte del privato

Secondo una tesi, il corrispettivo percepito dal cedente costituisce reddito diverso

/ Alessandro COTTO e Giulia LUBRANO

Martedì, 6 maggio 2025

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Una questione da anni controversa è quella che riguarda la rilevanza fiscale del corrispettivo percepito per la cessione del marchio, nell’ipotesi in cui il cedente non sia né un imprenditore né un esercente un’arte o una professione.

Al riguardo, occorre premettere che tale fattispecie non è elencata tra quelle che danno origine a redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo ai sensi dell’art. 53 comma 2 lett. b) del TUIR, che contempla i redditi derivanti dall’utilizzazione economica di diritti d’autore e di proprietà industriale.
Tale esclusione è il frutto di una precisa scelta legislativa, dettata dal fatto che, all’entrata in vigore del TUIR, l’art. 2573 c.c. consentiva la trasferibilità del diritto esclusivo all’uso del marchio solo congiuntamente all’azienda o a un ramo di essa. Per cui, tale fattispecie avrebbe potuto determinare effetti fiscali esclusivamente nell’ambito del reddito d’impresa.

In questo senso si esprime anche la relazione governativa al TUIR, secondo cui “quanto ai redditi derivanti dall’utilizzazione economica dei marchi di fabbrica e di commercio, invece, si è ritenuto di non comprenderli più tra i redditi di lavoro, né tra i «redditi diversi» nel rilievo che l’utilizzazione dei marchi d’impresa (mediante cessione o concessione in uso) avviene o in sede di trasferimento dell’azienda o di un ramo di essa o mediante la concessione di licenze non esclusive, e quindi nell’esercizio d’impresa (salvo ipotesi marginali per le quali potrà eventualmente soccorrere l’ampia previsione dell’art. 81, n. 11)”.
Successivamente, però, la norma civilistica è stata modificata, ammettendo la possibilità di trasferire il diritto di uso del marchio indipendentemente dal trasferimento dell’azienda o di un suo ramo.

Si pone quindi la questione in merito alla categoria di reddito nella quale far confluire i proventi percepiti per il trasferimento del marchio da un soggetto non imprenditore e non esercente un’arte o professione (in quanto, in tale ultima ipotesi, è stato previsto che il corrispettivo ricevuto concorre a formare il reddito di lavoro autonomo ex art. 54 del TUIR).

Secondo un primo orientamento, il corrispettivo percepito per la cessione del marchio è inquadrabile tra i redditi diversi e, in particolare, tra i redditi derivanti “dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere” di cui all’art. 67 comma 1 lett. l) del TUIR.
Questa tesi, condivisa dall’Agenzia delle Entrate (ris. nn. 81/2002 e 30/2006) e da autorevole dottrina, trova il proprio fondamento nella relazione governativa al TUIR. La relazione fa infatti salve le “ipotesi marginali per le quali potrà eventualmente soccorrere l’ampia previsione dell’art. 81, n. 11” e, quindi, riconduce i corrispettivi derivanti dalla cessione (o concessione in uso) dei marchi non effettuate da imprenditori tra i redditi derivanti dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere.

Anche parte della giurisprudenza di merito si è espressa a favore di tale tesi. In particolare, è stato affermato che “l’importo percepito dal titolare del marchio a seguito di cessione dello stesso a terzi, o – ancor più, come nel caso di specie – nel caso di concessione in licenza, viene corrisposto a fonte dell’assunzione di obblighi ben precisi, che consistono nel permettere ad un altro soggetto l’utilizzazione dello stesso” (C.G.T. II Toscana n. 1168/6/22; cfr. anche C.T. Reg. Milano n. 43/44/13).

Secondo un diverso orientamento, condiviso da altra parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, occorre distinguere tra concessione in uso e cessione del marchio. In base a tale tesi, “la cessione del marchio non può in alcun modo essere assimilata alla concessione d’uso, che ne consentirebbe l’inserimento dei proventi tra i redditi diversi indicati all’art. 67, perché il diritto – o l’obbligo – di concedere in uso presuppone che il concedente abbia la proprietà del bene, mentre nella fattispecie, trattandosi di cessione del marchio ad un soggetto diverso, il cedente si spoglia della proprietà e quindi di ogni diritto sul bene stesso, ivi compreso anche il potere di concedere in uso” (C.T. Reg. Veneto n. 524/5/19; cfr. anche C.T. I Arezzo n. 129/2/23). Secondo tale orientamento, la cessione del marchio da parte di soggetti non imprenditori o professionisti non sarebbe suscettibile di dare origine a un reddito imponibile (C.T. II Trento n. 71/1/19 e C.G.T. II Puglia n. 1128/1/24).

Tuttavia, tale ultima tesi sembra non considerare che la volontà del legislatore, che emerge dalla relazione governativa al TUIR, sembra essere stata proprio quella di non distinguere tra le ipotesi di cessione o concessione in uso del marchio, riservando alle stesse il medesimo trattamento fiscale.

Peraltro, anche nell’ambito dell’art. 53 comma 2 lett. b) del TUIR, il legislatore ha ricondotto in un’unica categoria i redditi derivanti sia dalla cessione sia dalla concessione in uso dei diritti relativi a beni immateriali contemplati dalla norma. Non apparirebbe quindi giustificata una simile distinzione solo per i marchi.

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