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FISCO

Utili su cambi alla prova della svalutazione su crediti

Secondo Assonime, dalla metodologia contabile adottata derivano effetti fiscali differenti

/ Salvatore SANNA

Lunedì, 4 agosto 2025

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La circ. Assonime 31 luglio 2025 n. 20 commenta l’abrogazione del comma 3 dell’art. 110 del TUIR, che stabiliva l’irrilevanza fiscale delle differenze di cambio “da valutazione” che venivano iscritte in bilancio in applicazione dei principi contabili.
Le attuali norme considerano dunque immediatamente rilevanti ai fini fiscali le differenze su cambi contabilizzate alla fine dell’esercizio da parte delle imprese.

Un’interessante analisi riguarda il rapporto tra le svalutazioni dei crediti in valuta e la differenza cambi derivanti dalla loro conversione a fine esercizio.
Secondo il documento OIC 26 (§ 28), si deve prioritariamente applicare il criterio di valutazione della posta espressa in valuta previsto dal principio contabile di riferimento e successivamente procedere con la conversione in euro del risultato così ottenuto.

Per giungere a questo risultato, Assonime considera valide due diverse politiche contabili.
La prima parte dal presupposto che, una volta individuato il valore di presumibile realizzo in valuta, la svalutazione debba essere convertita al cambio di fine esercizio. In questo caso, l’oscillazione del tasso di cambio deve essere riferita all’intero importo del credito, al lordo cioè della svalutazione dello stesso.

Si ipotizza dunque un credito in valuta iscritto inizialmente per 100 USD che sia considerato recuperabile solo per il 50% e a cui corrisponde una svalutazione di 50 USD.
Assumendo che il valore convertito corrisponda a 55 euro, si dovrebbe:
- convertire l’intero valore nominale del credito in dollari al tasso di cambio di fine esercizio, rilevando un controvalore di 110 euro e un utile su cambi di 10 euro;
- rilevare a Conto economico una svalutazione di 55 euro che risulta quindi convertita al medesimo cambio di fine esercizio.
In questo caso, l’impatto netto a Conto economico sarebbe di 45 euro, di cui 10 euro a titolo di utile su cambi e 55 euro a titolo di svalutazione.

Un’altra tecnica contabile prevedrebbe invece di partire dalla svalutazione del controvalore del credito al cambio storico per poi procedere con la conversione in euro del valore residuo. Quindi, ipotizzando un tasso di cambio iniziale tra euro e USD pari a 1:1, la svalutazione sarebbe pari a 50 euro, ossia alla differenza tra valore originario del credito (100 USD) e il valore di realizzo al cambio storico (50 USD), mentre la differenza su cambi sarebbe pari a 5 euro, ossia all’adeguamento del valore residuo di 50 USD dal cambio originario a quello di fine esercizio.
L’impatto netto a Conto economico sarebbe sempre pari a 45 euro, ma con una composizione diversa: 5 euro a titolo di utile su cambi e 50 euro a titolo di svalutazione su crediti.

Inoltre, rileva Assonime, questa ipotesi prevede che anche negli anni successivi tanto le ulteriori svalutazioni quanto le eventuali riprese fiscali dovrebbero essere valutate sempre al cambio storico. Ne conseguirebbe l’esigenza di quantificare la differenza cambi sul credito come differenza tra il credito al netto della svalutazione convertito al cambio di inizio esercizio e il medesimo credito (sempre al netto della svalutazione) convertito al cambio di fine esercizio.

Guardando agli aspetti fiscali, Assonime rileva che le due diverse metodologie contabili illustrate sopra potrebbero condurre a effetti differenti.
Ai sensi dell’art. 106 comma 1 del TUIR, per le imprese industriali, le svalutazioni dei crediti commerciali sono deducibili in ciascun esercizio in misura non superiore allo 0,5% e fino a concorrenza del 5% del monte crediti. A questo proposito l’art. 106 del TUIR fa testualmente riferimento al “valore nominale” dei crediti risultanti in bilancio alla fine dell’esercizio.
Va poi aggiunto che, qualora i crediti commerciali in valuta si qualifichino come crediti di modesto importo (ossia come crediti di ammontare non superiore a 2.500 euro o a 5.000 euro per le imprese di maggiori dimensioni), le svalutazioni imputate in bilancio possono assumere piena rilevanza fiscale in quanto gli elementi certi e precisi per la deduzione delle perdite si presumono sussistere ex lege (art. 101 comma 5 del TUIR).

Assonime, poi, ritiene che anche con le attuali disposizioni dovrebbero continuare a rimanere prive di rilevanza fiscale le differenze cambi di fine esercizio su crediti (o debiti) in valuta relative a componenti reddituali imponibili per cassa. Quindi, se i crediti (o i debiti) si riferiscono a componenti reddituali che non hanno alcun riconoscimento fiscale, allo stesso modo non dovrebbero avere rilevanza fiscale le rispettive differenze su cambi appostate in bilancio.
Al riguardo, la ris. Agenzia delle Entrate 6 giugno 2019 n. 57 ha affermato il principio secondo il quale le variazioni di cambio non assumono autonoma rilevanza, ma devono essere “assorbite” dal regime del provento principale, trattando il caso dei dividendi che sono, appunto, imponibili per cassa ex art. 89 del TUIR.
Muovendo da queste considerazioni, Assonime ritiene logico che i componenti rilevanti per cassa debbano essere assunti ai fini fiscali per il controvalore in euro delle somme incassate o pagate e che risultano irrilevanti le differenze su cambi eventualmente registrate in precedenza.

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