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LAVORO & PREVIDENZA

Antisindacale l’esclusione di un sindacato voluta dall’associazione di categoria

Rileva l’obiettiva lesione degli interessi collettivi protetti, non il dolo o la colpa datoriale

/ Federico ANDREOZZI

Lunedì, 22 dicembre 2025

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Ai fini della qualificazione della condotta antisindacale è sufficiente l’elemento oggettivo costituito dall’attitudine, anche solo potenziale, del comportamento del datore di lavoro a ledere gli interessi tutelati, a nulla rilevando la consapevolezza da parte di quest’ultimo di ledere il bene collettivo protetto; l’esigenza di tutelare la libertà sindacale può sorgere, infatti, anche in relazione ad un’errata valutazione da parte del datore circa la portata della sua condotta.
È questo il principio sancito dalla Cassazione, con la pronuncia n. 29809/2025.

Nel caso di specie vi era stata l’esclusione, da parte del datore di lavoro, dei rappresentanti dell’organizzazione sindacale alla quale i lavoratori erano iscritti, in occasione della stipula di accordi conciliativi. Detta estromissione era stata in realtà la conseguenza di un conflitto tra due associazioni collettive: da un lato, quella datoriale, dall’altro quella dei dipendenti. La scelta operata dal datore era dipesa unicamente dal volere della propria associazione di categoria.

Secondo la Corte d’Appello, il comportamento datoriale non poteva considerarsi antisindacale, poiché la tutela delle libertà e delle prerogative sindacali di cui all’art. 28 della L. 300/70 non potrebbe spingersi, secondo il giudice territoriale, fino a imporre al datore di lavoro di fare pressioni sulla propria associazione di categoria nell’ambito di un conflitto sindacale, imponendogli di riconoscere come controparte una determinata organizzazione.
Di diverso avviso la Cassazione che, investita della vicenda, dichiara antisindacale la condotta datoriale.

I giudici di legittimità chiariscono, infatti, come la circostanza per cui l’esclusione dei rappresentanti sindacali dei lavoratori dalla sede conciliativa fosse la conseguenza di un conflitto tra due associazioni collettive non vale a escludere che il sindacato abbia subito un comportamento oggettivamente lesivo della propria libertà e attività sindacale: i medesimi lavoratori non avevano potuto avvalersi dell’assistenza del proprio sindacato ed erano stati invitati a rivolgersi ad un altro.

Nella configurabilità di una condotta come antisindacale, conclude la Corte, è determinante l’elemento oggettivo costituito dalla possibilità che il comportamento realizzato dal datore sia idoneo a ledere gli interessi tutelati dalla norma: non rileva, invece, che il datore abbia agito in attuazione di una volontà proveniente dalla propria associazione di categoria.

Questa pronuncia si colloca, a ben vedere, sulla scia di un costante orientamento della Corte, che trova il suo fondamento nell’interpretazione del dato letterale dell’art. 28, che definisce la condotta antisindacale individuando il comportamento illegittimo non in base a caratteristiche strutturali, bensì alla sua idoneità a ledere i beni protetti. Per integrare gli estremi della fattispecie, quindi, è sufficiente che detto comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro. Viceversa, una particolare volontà lesiva del datore di lavoro non può di per sé far considerare antisindacale una condotta che non abbia rilievo tale da limitare la libertà sindacale (cfr. Cass. SS.UU. n. 5295/97; Cass. nn. 9250/2007 e 13726/2014).

Sulla scorta di tali elementi, spetta quindi al giudice valutare l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre il risultato che la legge intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero.
Un’applicazione di detti principi è stata recentemente offerta dal Tribunale di Bologna, con decreto del 22 settembre 2025.
In tale occasione, il giudice bolognese era stato chiamato a valutare l’antisindacalità del comportamento datoriale consistito nell’aver trasmesso ai propri dipendenti alcune comunicazioni nelle quali esponeva la propria posizione in merito ad argomenti oggetto di trattativa sindacale. Secondo le organizzazioni interessate, detta condotta aveva limitato l’esercizio della propria attività e ne avevo leso gravemente l’immagine, scavalcando i sindacati e comunicando direttamente con i lavoratori nell’ambito di una vertenza sindacale.

Di diverso avviso il Tribunale di Bologna che, richiamando i principi anzidetti, ha chiarito come il comportamento del datore non fosse oggettivamente idoneo a ledere le prerogative sindacali. Infatti, queste comunicazioni non si concretizzavano in un obiettivo ostacolo all’attività sindacale, né poteva ritenersi che le stesse avessero compromesso l’immagine del sindacato; l’impresa, infatti, si era limitata a precisare la propria posizione, senza interferire sul regolare svolgimento delle trattative in corso. In mancanza, quindi, dell’elemento oggettivo costituito dalla lesione del bene protetto dall’art. 28, alcuna condotta antisindacale poteva essere ascritta al datore di lavoro.

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