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Giovedì, 11 dicembre 2025 - Aggiornato alle 6.00

LAVORO & PREVIDENZA

Per il CCNL applicabile nell’appalto di servizi conta l’attività svolta in concreto

La retribuzione deve essere proporzionata e adeguata non soltanto alla quantità del lavoro prestato, ma anche alla sua qualità

/ Federico ANDREOZZI

Giovedì, 11 dicembre 2025

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L’art. 36 Cost. esige che la retribuzione sia proporzionata e adeguata non soltanto alla quantità del lavoro prestato, ma anche alla sua qualità.
Pertanto, assume primario rilievo individuare la disciplina contrattuale propria o comunque maggiormente affine alla categoria merceologica nella quale il lavoratore è impiegato. In tal senso, per la determinazione del “giusto salario minimo costituzionale”, il giudice può estendere il trattamento previsto in altri contratti collettivi che contemplino prestazioni lavorative affini o analoghe: nel caso di lavoratori inviati in appalto, ciò non comporta l’obbligo di garantire ai lavoratori il medesimo trattamento economico applicato ai dipendenti della committente che svolgono le stesse mansioni, ma risponde alla necessità che la retribuzione conforme all’art. 36 Cost. sia individuata anche in considerazione della regolamentazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze della committente nel caso in cui quest’ultima, per categoria contrattuale e/o merceologica, individui prestazioni analoghe a quelle del lavoratore che lamenti l’inadeguatezza della retribuzione.
In tal modo si è pronunciata la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 32118 di ieri, 10 dicembre 2025.

La controversia sorgeva a fronte di un ricorso presentato da un lavoratore, impiegato in appalto presso una cooperativa, diretto al conseguimento delle differenze retributive derivanti dall’applicazione del CCNL Cooperative alimentari, anziché del CCNL trasporti merci e logistica (TML), applicato al rapporto.

Riformando parzialmente la pronuncia di primo grado, i giudici di appello avevano respinto le domande del lavoratore: il CCNL TML doveva ritenersi conforme ai principi di proporzionalità e sufficienza, in quanto corrispondente all’attività in concreto svolta e al core business dell’impresa.
Inoltre, i giudici di seconde cure avevano rilevato come, ai fini dell’art. 3 della L. 142/2001, il lavoratore non avesse affermato di ricevere un trattamento economico inferiore ai minimi previsti dalla contrattazione della categoria affine (deducendo di aver ricevuto una retribuzione inadeguata e insufficiente, ex art. 36 Cost.): lo stesso si era infatti limitato a rivendicare il più favorevole trattamento di cui al CCNL Cooperative alimentari. Così, il lavoratore aveva presentato ricorso in Cassazione che, investita della vicenda, ne ha accolto le doglianze.

In prima battuta, la Corte chiarisce che, nella domanda con la quale il lavoratore chiede il pagamento di quanto gli spetta in forza dell’applicazione di un contratto collettivo, deve ritenersi implicita la richiesta di adeguamento della retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost. (cfr. Cass. SS.UU. n. 2665/97).
Quindi, i giudici di legittimità evidenziano come al caso in esame vada applicato l’art. 3 della L. 142/2001, che pone l’obbligo, per le società cooperative, di corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine. Detta disposizione, spiega la Corte, non implica il riconoscimento di un’efficacia erga omnes del contratto di settore, ma individua il medesimo quale “parametro esterno di commisurazione della retribuzione adeguata”.

Pertanto, nel momento in cui il lavoratore rivendichi la retribuzione prevista da un contratto collettivo che ritiene coerente all’attività svolta dal datore, spetta al giudice procedere alla comparazione tra il trattamento economico riservato dal contratto “innaturale” applicato al rapporto e quello garantito dal CCNL della categoria affine, per stabilire la conformità della retribuzione ai parametri di proporzionalità, ponendo attenzione non soltanto alla quantità, ma anche qualità del lavoro svolto; ed è proprio quest’ultimo elemento ad assumere centralità nella fattispecie in esame, che verte tra contratti afferenti a settori diversi, ossia quello della logistica e quello alimentare.

Ciò detto, la Corte volge all’esame delle mansioni svolte dal lavoratore: quest’ultimo era, infatti, adibito all’appendimento di polli e tacchini. Detta attività, anche ai sensi del regolamento Ce n. 1099/2009, deve ritenersi direttamente correlata alla macellazione degli animali, posto che il personale addetto a queste operazioni deve essere in possesso di un adeguato livello di competenza e del relativo certificato di idoneità.

Da quest’ultimo rilievo, spiegano i giudici di legittimità, deriva che l’attività oggetto dell’appalto avrebbe dovuto ricomprendersi nella categoria alimentare, che include la trasformazione e la lavorazione dei prodotti agricoli e zootecnici, anziché a quella della logistica, comprensiva dell’attività di mera movimentazione delle materie prime e del prodotto finito. La sentenza impugnata viene quindi cassata: in forza di quanto esposto, il giudice d’appello avrebbe dovuto comparare il trattamento economico minimo previsto da ciascuno dei contratti collettivi, per valutare se la retribuzione corrisposta al lavoratore fosse adeguata o meno.

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