Legittimo il licenziamento per condotte extralavorative lesive della dignità
Occorre considerare la volontà delle parti contrattuali partendo dal tenore testuale delle previsioni del CCNL
I comportamenti violenti posti in essere dal lavoratore al di fuori del contesto lavorativo, quindi nei rapporti interpersonali o familiari, integranti gli estremi di un reato, possono legittimare il licenziamento per giusta causa, soprattutto quando il CCNL applicato preveda in modo espresso tale sanzione per comportamenti lesivi della dignità della persona.
Lo ha affermato la Cassazione con l’ordinanza n. 32952/2025, riguardante il licenziamento di un lavoratore condannato alla pena della reclusione pari a due anni, sei mesi e sei giorni per i reati di stalking, lesioni personali aggravate e danneggiamento nei confronti dell’ex coniuge.
Nel caso di specie, il CCNL Servizi ambientali, applicato in azienda, prevedeva all’art. 68 § G lett. i) la possibilità di intimare il licenziamento per giusta causa per “gravi atti, comportamenti o molestie, anche di carattere sessuale, che siano lesivi della dignità della persona”.
La Corte d’Appello, interpretando la citata clausola contrattuale nel senso di limitarla a condotte commesse all’interno dei luoghi di lavoro, ha ritenuto che le condotte poste in essere dal lavoratore non potevano giustificare il licenziamento, aggiungendo che, peraltro, non avevano comportato alcun danneggiamento né all’attività né all’immagine aziendale.
Per la Corte di Cassazione, invece, il licenziamento doveva considerarsi assolutamente legittimo.
Infatti, dopo aver ricordato che i comportamenti extralavorativi possono giustificare l’irrogazione della sanzione espulsiva quando risultino tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o siano tali da compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso, i giudici di legittimità hanno criticato l’interpretazione fornita dalla Corte d’Appello alla citata previsione del CCNL.
In particolare, nella pronuncia si evidenzia che la Corte d’Appello, limitando la previsione alle condotte poste in essere all’interno del luogo di lavoro, e dunque tracciando una netta distinzione tra le condotte tenute dal dipendente in ambito familiare, o sociale, e le condotte poste in essere durante lo svolgimento della prestazione lavorativa o, comunque, sul luogo di lavoro, ha fornito un’interpretazione restrittiva “in assenza di qualsiasi appiglio testuale e di altri elementi indicativi di una volontà in tal senso delle parti”. I giudici di merito non hanno infatti specificato da quali elementi avrebbe dovuto desumersi l’esclusione di comportamenti tenuti al di fuori del contesto lavorativo.
Tale interpretazione restrittiva della norma del CCNL, del resto, osserva la Cassazione, non conferisce adeguato valore alla volontà delle parti di porre l’attenzione su specifiche condotte incidenti sulla dignità personale, dato che, come osservato dalla società datrice di lavoro, con la previsione di cui all’art. 68 § G lett. i) del CCNL si è voluto sanzionare con il licenziamento senza preavviso, quindi per giusta causa, l’ipotesi di violenza di genere prescindendo sia da un’eventuale condanna penale e dalla sua entità, sia dalla commissione o meno del fatto nel luogo di lavoro.
Del resto, anche nell’interpretazione dei contratti collettivi, ai sensi dell’art. 1362 c.c., occorre indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti partendo dal tenore letterale delle disposizioni, il cui rilievo deve essere oggetto di verifica considerando l’intero contesto del contratto collettivo. Quindi, le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro ex art. 1363 c.c., secondo cui “le clausole del contratto si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto” (cfr. Cass. n. 19585/2021).
Nel caso di specie, dunque, l’esclusione delle condotte tenute fuori dal luogo di lavoro, seppur lesive della dignità personale, non era giustificabile, anche in considerazione delle specifiche mansioni cui il lavoratore era addetto, che implicavano un contatto con l’utenza.
A ulteriore fondamento di ciò, si richiama un precedente in materia, con cui è stato affermato che, seppure la condanna penale non comporti l’automatica integrazione della giusta causa di licenziamento, risulta sussumibile nella nozione legale di giusta causa di licenziamento anche una condotta extralavorativa penalmente rilevante e sfociata in una condanna tenuta nell’ambito del contesto familiare, caratterizzata dalla lesione dell’altrui dignità e da forme abituali di violenza e sopraffazione fisica e psichica, soprattutto quando le mansioni del lavoratore “comportino costante contatto col pubblico ed esigano rigoroso rispetto verso gli utenti e capacità di autocontrollo” (cfr. Cass. n. 31866/2024).
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