No al muro contro muro, ma alcune cose vanno dette
Lunedì scorso, abbiamo aperto la prima settimana del 2011 post rientro dalle ferie natalizie con una disincantata analisi del quadro complessivo che va configurandosi per quest’anno in relazione ai rapporti tra Fisco, contribuenti e loro professionisti (si veda l’editoriale “Fisco: una comunicazione tira l’altra” del 10 gennaio).
Delle tante brevi mail o vere e proprie lettere sul tema che i colleghi e gli altri lettori hanno mandato alla redazione, la più intrigante è stata senza dubbio quella che pubblichiamo oggi (“Per migliorare il rapporto con il Fisco, la categoria deve reagire”), con qualche inevitabile giorno di ritardo per esigenze “di traffico”, nell’ambito della quale viene posto un fondamentale quesito: e quindi che facciamo?
Risposta: quello che stiamo facendo, ciascuno nel suo piccolo. Cos’altro?
Lavoriamo con serietà all’interno dei nostri studi e cerchiamo di fare opinione all’esterno, al fine di portare l’attenzione sulle questioni che ci toccano sia come liberi professionisti che come cittadini di questo Paese.
Senza gusto della polemica per la polemica e cercando sempre di connotare le nostre proposte, e a maggior ragione le nostre critiche, per l’autorevolezza della sottostante conoscenza tecnica della materia e per la puntualità delle osservazioni, rifuggendo sempre dalla tentazione di sparare nel mucchio con affermazioni apodittiche, fatte magari più per strappare un facile quanto effimero applauso a chi già la pensa come te, che non per convincere chi ha legittimamente un’opinione diversa dalla tua.
In momenti come questo, in cui si accentua il divario di attenzione da parte del legislatore fiscale tra esigenze di incasso del Fisco e tutela del contribuente, è inevitabile che quanto più argomentata e autorevole è la posizione di chi esprime il proprio disappunto, tanto maggiore è il fastidio che crea in chi, partendo da una volontà assolutamente condivisibile di combattere l’evasione fiscale, ritiene magari che il fine possa giustificare i mezzi.
Se le cose stanno così, possiamo sicuramente riconoscere significativa autorevolezza e capacità argomentativa ai vertici della nostra categoria, atteso che le loro considerazioni, di questi primi giorni di un 2011 che si annuncia fiscalmente frizzante, hanno provocato nella giornata di ieri una piccata replica da parte dell’ufficio stampa dell’Agenzia delle Entrate, cui oggi sono seguite non meno decise controrepliche da parte dello stesso CNDCEC e dai sindacati maggiormente rappresentativi della categoria, apprezzabili per compattezza e tempestività (si veda “Alta tensione tra commercialisti e Agenzia delle Entrate” di oggi).
L’impressione è che l’agognata via del cambiamento culturale sia ancora lunga e impervia.
Dobbiamo sicuramente percorrerne ancora un pezzo anche noi commercialisti, che pur abbiamo davvero dato prova di grandissima buona volontà in questi ultimi tre anni, caratterizzandoci per una netta presa di distanze da giustificazionismi dell’evasione fiscale, ribadendo a ogni occasione la nostra contrarietà a condoni e scudi fiscali; parlando per primi di redditometro come strumento da ripescare (attendiamo però adesso di vedere quello che hanno ripescato); non omettendo di riconoscere il buono nell’operato dell’Amministrazione finanziaria quando c’era da farlo; interpretando come battute in libertà da non esasperare alcune poco felici uscite dei vertici dell’Agenzia sul ruolo svolto dai commercialisti nell’evasione dei loro clienti.
Ancor più lungo pare, però, il pezzo di strada che deve ancora percorrere l’Amministrazione finanziaria, se sono sufficienti toni un po’ più decisi, nell’esporre critiche comunque puntuali e non generiche, per far seguire comunicati stampa in cui si scrive nero su bianco che è lecito presumere che i commercialisti siano ben consapevoli dell’evasione dei loro clienti (una presunzione di consapevolezza che si ferma solo, ma davvero solo, un passo prima della presunzione di paternità), salvo concludere poi con un: “Sappiamo che sono molti i dottori commercialisti che condividono l’operato dell’Agenzia e non favoriscono l’evasione nel loro lavoro quotidiano”.
Un po’ come se noi scrivessimo: “Sappiamo che sono molti i dipendenti dell’Agenzia che condividono il punto di vista dei commercialisti e non perseguitano i contribuenti nel loro lavoro quotidiano”.
Non suonerebbe dannatamente male?
Eppure, proprio perché siamo inclini a vedere il lato positivo delle cose, preferiamo senz’altro vederlo come un tentativo non proprio riuscitissimo di moderazione della polemica, piuttosto che come un ulteriore affondo finale.
Anche a noi a volte le ciambelle non riescono col buco, per cui ci mancherebbe.
E poi le polemiche per partito preso non servono a nessuno, se non a lasciare le cose come stanno, in un gioco incrociato di pregiudizi ideologici che distraggono dai fatti e dai numeri.
Noi preferiamo invece rimanere su fatti e numeri, dando il nostro contributo perché si colga la sostanza delle cose.
A tale proposito, è bene partire dalla cosa più oggettiva del mondo: i numeri.
Ve ne anticipiamo qualcuno qui, ma ci torneremo sopra.
Somme destinate dallo Stato nel 2010 per compensi all’attività di riscossione da parte di Equitalia: 324.725.700 euro; per compensi destinati al funzionamento della giustizia tributaria: 73.482.010 euro; per compensi di assistenza fiscale dei CAF: 320.000.000 euro; per compensi agli intermediari fiscali: non pervenuto (a occhio e croce 30 milioni di euro, massimo 40, quando per questa attività, con molti meno adempimenti, il sistema bancario prendeva decisamente di più).
Che dite, potremo permetterci ancora di dire, con rispetto parlando s’intende, che in questo Paese la riscossione conta molto di più della giustizia e che gli studi dei professionisti sono le uniche vittime in Italia di un’operazione in cui lo Stato ha fatto efficienza e ridotto pure i costi?
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