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OPINIONI

Cassa Dottori: dimezzare i contributi è sbagliato sul piano tecnico e politico

La proposta minerebbe il senso di appartenenza alle istituzioni professionali

/ Amedeo SACRESTANO

Martedì, 8 maggio 2012

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Pubblichiamo l’intervento di Amedeo Sacrestano, Delegato alla CNPADC per l’Ordine di Nocera Inferiore.

In questi giorni, si è già ampiamente dibattuta l’opportunità di accogliere la proposta di dimezzamento dei contributi soggettivi minimi dei pensionati attivi, in discussione alla prossima Assemblea dei delegati della Cassa Nazionale Dottori (si vedano, al riguardo, i contributi di Eleonora Di Vona, “A difesa del dimezzamento dei contributi argomentazioni poco convincenti” del 26 aprile e Andrea Ciuti, “Cassa Dottori: meglio concentrarsi sugli incentivi ai nuovi ingressi” del 3 maggio). In molti – per primo il Cda della Cassa, che l’ha avanzata – hanno provato a spostare i termini del confronto sul piano squisitamente “tecnico”. Altri, più correttamente, hanno ricondotto la questione al suo naturale alveo di discussione, ovvero quello dell’opportunità e validità della “proposta politica”.

Nel corso di questo mandato di delegato nazionale, mi sono più volte interrogato sulla natura della mia funzione, chiedendomi se stessi esercitando un ruolo “tecnico” (come più volte suggerito dal Consiglio di amministrazione) o “politico” (più coerentemente con la mia coscienza critica). La risposta che mi sono dato è stata sempre la stessa: il compito di un qualsiasi componente di un’assemblea elettiva non può che essere eminentemente “politico” e, in tal senso, la funzione del delegato non può che essere quella d’indirizzare le scelte di governo dell’Ente amministrato nella direzione che maggiormente si allinea alla propria visione della “compartecipazione di più soggetti al destino di una collettività”. Un delegato non fa mai una scelta “tecnica”: questa, semmai, l’aiuta a comprendere meglio i caratteri del fenomeno analizzato, rispetto al quale si è chiamati a esprimere una linea d’indirizzo sempre “politico” per la sua gestione.

Fatta questa premessa, dichiaro di appartenere alla schiera di chi ritiene la proposta di dimezzamento dei contributi soggettivi dei pensionati attivi sbagliata sul piano tecnico e, ancor di più, su quello politico.

Partendo dal primo punto, giova rammentare che la proposta, avanzata dal Consiglio di amministrazione, prende spunto dalla novella recata dall’art. 18, comma 11, del DL n. 98/2011. Questa ha decretato la natura obbligatoria della contribuzione, in tutte le forme previdenziali gestite dalle Casse privatizzate, anche per i titolari di un trattamento pensionistico, qualora essi percepiscano redditi derivanti dallo svolgimento di attività professionali rientranti nel campo di applicazione di tali forme previdenziali.

La relazione illustrativa al provvedimento (A.S. 2814) ne spiega bene la genesi. Negli ultimi anni, l’INPS – nella sua attività di contrasto all’evasione ed elusione contributiva – ha ritenuto di contestare il mancato versamento della contribuzione alla Gestione separata, di cui all’articolo 2, comma 26, della L. 335/1995, in tutti quei casi in cui un pensionato attivo non avesse continuato a versare contributi soggettivi alla sua “Cassa di provenienza”. Detto comportamento, per l’INPS, non era infatti coerente col principio generale per il quale “i redditi prodotti devono essere assoggettati a contribuzione previdenziale”. Il Legislatore è, dunque, intervenuto solo per “dirimere la questione”, stabilendo l’obbligatorietà della permanenza d’iscrizione alle Casse di previdenza di Categoria anche per i pensionati attivi. Poiché tale obbligo è già attualmente in vigore per la Cassa dei Dottori Commercialisti, questa avrebbe potuto serenamente ignorare il disposto del DL n. 98/2011, vista la non necessità di adeguamento dello statuto richiamata dalla norma. Invece, si è deciso di utilizzare la facoltà stabilità dalla medesima di proporre all’Assemblea dei Delegati il dimezzamento della contribuzione per i pensionati attivi, asserendo che – diversamente operando – questi potrebbero optare per la cancellazione dalla Cassa, con ciò facendo mancare alla stessa un utile flusso di contributi integrativi.

Sul piano tecnico, questa asserzione deve ritenersi sbagliata, proprio tenendo conto del richiamato principio di obbligatorio assoggettamento a contribuzione previdenziale di tutti i redditi prodotti (e, dunque, anche di quelli dei pensionati). Per questi ultimi, l’unica strada (legale) percorribile per poter continuare ad esercitare la propria attività professionale sarebbe quella di iscriversi alla Gestione separata dell’INPS, assoggettandosi, così, ad un prelievo contributivo addirittura maggiore di quello attualmente previsto dalla nostra Cassa di previdenza.

La scelta da fare è, dunque, solo “politica”. È in questo ambito che occorre interrogarsi sull’opportunità di ridurre i contributi soggettivi per i pensionati attivi, anche partendo da quanto affermato dallo stesso attuario della Cassa (nella sua nota di accompagnamento alla proposta), che ha stimato un impatto inferiore all’1% sul patrimonio della medesima legato alla riduzione della contribuzione. Ovviamente, bisognerebbe conoscere i dettagli (al momento, non resi noti) di tali stime per poter effettuare una valutazione consapevole. Già così, però, è possibile affermare che il “beneficio collettivo” legato alla proposta politica di agevolazione per i pensionati attivi è molto basso (pur se non ritenuto imparagonabile), confrontato ai valori di “equità” e “giustizia” che esso intende mettere in discussione. In altri termini, pur volendo considerare realistica l’ipotesi di cancellazione volontaria dalla Cassa per i pensionati attivi (contrariamente a quanto dimostrato prima), il vantaggio materiale per l’Ente legato alla proposta in discussione appare (per ammissione del suo stesso attuario) trascurabile.

Non è, invece, marginale la frattura tra “vecchie” e “nuove” generazioni d’iscritti che la proposta contribuisce ad aumentare. La previdenza, per gli appartenenti a una collettività, è resa obbligatoria dall’articolo 38 della nostra Costituzione. I Dottori Commercialisti si sono autodeterminati a provvedervi in maniera autonoma e non possono occuparsene mediante trattamenti differenti per categorie d’iscritti. Questo principio di giustizia non può essere sacrificato ad alcuna valutazione di convenienza (reale o presunta che sia). Tutto ciò anche per non pregiudicare un già precario senso di appartenenza alla categoria professionale che, per molti, non ha (o non ha più) ragione d’esistere.

La funzione sociale del Commercialista, il suo impegno per la tutela della fede pubblica, nascono e si alimentano anche dall’approccio concreto che gli iscritti (e le Istituzioni di categoria) dimostrano di avere verso i più alti principi che ispirano le interazioni tra soggetti nei sistemi sociali ed economici. Giustizia, equità, solidarietà e pari opportunità non possono essere valori privi di significato per qualsiasi categoria sociale, al pari dell’etica della trasparenza e dell’efficienza nella gestione della cosa pubblica.

Non si tratta di richiami astratti a principi d’altri tempi, ma degli unici fondamenti culturali che possono guidare qualsiasi collettività verso un futuro di civiltà e con minori conflitti.

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