Il nuovo redditometro non ha efficacia retroattiva
Vanno fugati i dubbi in tal senso, sia per la lettera della norma, sia per la particolarità della metodologia utilizzata dal nuovo strumento
Pubblichiamo l’intervento di Federica Ruggiano, della Direzione Centrale Affari legali e Contenzioso dell’Agenzia delle Entrate.
Nel merito delle decisioni recentemente assunte da alcune Commissioni tributarie provinciali (CTP di Reggio Emilia 18 aprile 2013, n. 74 e CTP di Rimini 21 marzo 3013, n. 41) va innanzitutto evidenziato che le stesse producono effetti circoscritti ai singoli casi esaminati. Si tratta, quindi, di decisioni non idonee a produrre conseguenze generalizzate. Le sentenze in questione non inficiano, inoltre, la legittimità del Decreto ministeriale 24 dicembre 2012, la cui disapplicazione è stata disposta dal giudice esclusivamente in riferimento al caso “dedotto in giudizio”.
Vanno fugati anche i dubbi sull’applicazione retroattiva del nuovo redditometro per le annualità anteriori al 2009. L’efficacia retroattiva della nuova norma è da escludere per ragioni riferibili sia alla lettera della norma (le modifiche introdotte dal DL 78/2010 hanno effetto “per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto”, con esclusione, quindi, degli accertamenti relativi a periodi d’imposta anteriori al 2009), sia alla particolarità della metodologia utilizzata dal nuovo redditometro, che si basa su manifestazioni di spesa e non, come il vecchio, sulla mera disponibilità di determinati beni.
In proposito, giova ricordare che per la vecchia versione del redditometro risalente al 1992 era espressamente prevista la possibilità che il contribuente potesse chiedere, qualora l’accertamento non fosse divenuto definitivo, che il reddito venisse rideterminato sulla base dei nuovi criteri (art. 5, comma 3, ultimo periodo del DM 10 settembre 1992). Analoghe disposizioni non sono rinvenibili nel sistema attualmente vigente delineato dal DM 24 dicembre 2012.
In definitiva, sia il limite temporale individuato dallo stesso DL n. 78, sia l’assenza di una previsione analoga a quella contenuta nel DM del 1992, inducono di per sé a escludere un’applicazione retroattiva del “nuovo redditometro”.
A nulla rilevano in questo senso anche le presunte analogie, elaborate da parte della dottrina, circa l’utilizzo retroattivo degli studi di settore “evoluti” e di quelli “integrati” di recente ribadito anche dalla circolare n. 30/E dell’11 luglio 2012. Il documento di prassi ha chiarito, infatti, che il presupposto per un’applicazione retroattiva dello strumento di accertamento dello studio di settore è comunque rappresentato dall’esistenza di una metodologia analoga, che consenta quindi di ritenere sostanzialmente comparabili le procedure adottate. Tra “vecchio” e “nuovo” redditometro emerge invece una sostanziale disomogeneità, sia nell’approccio metodologico alla determinazione del reddito complessivo sia nella base dati di riferimento ossia negli indicatori sintetici di reddito, che, conseguentemente, giustifica la scelta del legislatore di non attribuire valenza retroattiva al “nuovo redditometro”.
Per quanto riguarda le censure mosse in tema di violazione della privacy va precisato che con l’entrata in vigore del Decreto Ministeriale 24 dicembre 2012 non si verifica alcuna lesione del diritto alla riservatezza del contribuente, poiché questa norma non dispone né disciplina la raccolta di informazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate, ma si limita a prevedere che le informazioni sulle spese del contribuente, già nella disponibilità dell’Agenzia sulla base di altri - diversi - provvedimenti, siano adoperate per il procedimento di verifica della corrispondenza del reddito reale ai redditi dichiarati.
Le fonti sulla base delle quali sono raccolti e analizzati i dati riconducibili agli elementi indicativi di capacità contributiva (elencati nella tabella A allegata al DM del 2012) sono regolamentate da norme differenti e pertanto l’eventuale illegittimità del decreto non incide sulla legittimità delle banche dati di cui dispone l’Agenzia delle entrate nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali.
La raccolta dei dati effettuata dall’Agenzia delle Entrate, inoltre, non viola le disposizioni previste dal Codice della privacy, in quanto l’Agenzia agisce nel rispetto di quanto previsto dalla legge in materia di trattamento dati effettuato da parte di soggetti pubblici.
In tali ipotesi, il presupposto di legittimità del trattamento non è il consenso dell’interessato (come avviene per il trattamento effettuato da soggetti privati), ma piuttosto la strumentalità delle operazioni di trattamento allo svolgimento delle funzioni istituzionali del soggetto pubblico.
Anche per trattare i dati sensibili, le pubbliche amministrazioni non sono tenute a richiedere il consenso dell’interessato quando una norma di legge autorizzi e specifichi i dati che possono essere trattati, le operazioni eseguibili e le rilevanti finalità di interesse pubblico perseguite.
L’attività di raccolta dati si basa, tra l’altro, anche sulle informazioni comunicate dallo stesso contribuente in sede di presentazione della propria dichiarazione dei redditi. Ciò porta ad escludere la possibilità di configurare un evento lesivo, in quanto sono state fornite dallo stesso contribuente molte delle informazioni in ordine alle spese (rispetto alle quali è stata chiesta la deduzione ovvero la detrazione in sede di dichiarazione dei redditi).
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