La nuova legge non garantirà alcun equo compenso a noi professionisti
Gentile Direttore,
nonostante le roboanti dichiarazioni di qualche esponente politico, le legge approvata alla Camera dei Deputati non garantirà, se non in casi residuali, alcun equo compenso a noi professionisti.
In cambio, tuttavia, ci viene “regalato” un impianto che incrementa oneri e responsabilità a nostro carico. Cerco di spiegarmi.
La legge garantisce l’equo compenso, il cui livello viene definito da parametri ministeriali, a due condizioni:
1)che il committente sia una banca, un’assicurazione, un’impresa di grandi dimensioni o una pubblica amministrazione;
2)che la prestazione professionale sia regolata da una convenzione.
In altre parole, l’equo compenso non viene contemplato per i rapporti limitati alle singole prestazioni professionali che, guarda caso, rappresentano la gran parte degli incarichi che il professionista riceve dalla pubblica amministrazione. Una legittima scelta del legislatore che, tuttavia, non può essere spacciata per l’introduzione di un principio che dovrebbe avere carattere universale (remunerazione corrispondente alla qualità e alla quantità della prestazione resa).
Ma veniamo alle criticità della legge, criticità talmente vaste da sfociare nell’insensatezza. Se ne possono individuare almeno cinque.
1. La legge prevede che il compenso equo sia fissato da parametri ministeriali, ma poi dà facoltà alle imprese committenti di stipulare convenzioni, i cui compensi si presumono equi fino a prova contraria, con i Consigli nazionali degli Ordini. Ma se il compenso equo è già fissato dai parametri che senso hanno le convenzioni, se non consentire di derogare (evidentemente al ribasso) i parametri?
2. Un professionista che dovesse agire contro il committente per vedersi riconoscere un compenso adeguato sarebbe – stando alla legge – passibile di denuncia (magari promossa dallo stesso committente) al consiglio di disciplina dell’Ordine, che sarebbe tenuto a esercitare l’azione disciplinare. Di fatto, quindi, si impedisce al professionista di attivare l’unico strumento di tutela del suo diritto.
3. Prevedendo una sanzione a carico del professionista sottopagato invece che dell’impresa committente la legge stabilisce il nuovo primato mondiale dell’assurdità: come se in caso di furto venisse punita la vittima al posto del ladro.
4. Paradosso nel paradosso: mentre la disciplina dell’equo compenso si applica tanto agli iscritti come ai non iscritti agli Ordini, il sistema sanzionatorio viene attivato soltanto a carico dei primi. Tant’è che nei casi in cui la medesima prestazione viene svolta congiuntamente (si pensi, ad esempio, agli organi di controllo delle società), saranno passibili di azione disciplinare soltanto gli iscritti agli Ordini.
5. Secondo la legge il Consiglio nazionale dell’Ordine potrebbe avviare l’azione giudiziaria senza il consenso del professionista interessato. Insomma, il cliente davanti all’autorità giudiziaria e il professionista al consiglio di disciplina, con buona pace della libertà di negoziazione privata.
Vi sarà, presumibilmente, anche una ulteriore conseguenza del combinato disposto dei punti 4 e 5: nel caso di attività non “riservate” i committenti saranno evidentemente più inclini ad affidare gli incarichi ai non iscritti agli Ordini che agli iscritti.
Un esito davvero inimmaginabile per quelli che avevano identificato nell’equo compenso l’affermazione di un sacrosanto diritto dei professionisti e oggi si ritrovano con l’esatto contrario.
Andrea Dili
Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Roma
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