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Sabato, 14 giugno 2025 - Aggiornato alle 6.00

ECONOMIA & SOCIETÀ

Rinuncia della parte adempiente alla risoluzione di diritto del contratto con dubbi

L’ammissibilità della rinuncia potrebbe dipendere dalla contestazione della controparte in merito all’avvenuta produzione dell’effetto risolutivo

/ Carmela NOVELLA

Sabato, 14 giugno 2025

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Nei contratti a prestazioni corrispettive, l’inadempimento di una delle parti legittima il contraente che abbia eseguito la propria prestazione ad agire in giudizio, ai sensi dell’art. 1453 c.c., per chiedere l’altrui condanna all’adempimento, ovvero la risoluzione del vincolo contrattuale (salvo, in ogni caso, il diritto al risarcimento del danno).

Il codice civile contempla, inoltre, tre ipotesi di risoluzione di diritto, nelle quali lo scioglimento del contratto si verifica indipendentemente dall’intervento del giudice e, quindi, dalla pronuncia di una sentenza costitutiva. Si tratta, nello specifico: della clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c., con cui le parti stabiliscono che il contratto si intenderà automaticamente risolto nel caso di inadempimento di un’obbligazione determinata, purché, però, la parte adempiente comunichi all’altra l’intenzione di avvalersene; della diffida ad adempiere ex art. 1454 c.c., ossia della dichiarazione scritta mediante la quale il contraente che ha subito l’altrui inadempimento assegna all’altro un termine (di norma, non inferiore a quindici giorni) per eseguire la controprestazione, con l’avvertimento che in difetto il contratto si intenderà senz’altro risolto a far data dalla scadenza del termine fissato; del termine essenziale di cui all’art. 1457 c.c., ove si prescrive che “se il termine fissato per la prestazione di una delle parti deve considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra, questa, salvo patto o uso contrario, se vuole esigerne l’esecuzione nonostante la scadenza del termine, deve darne notizia all’altra parte entro tre giorni. In mancanza, il contratto s’intende risoluto di diritto anche se non è stata espressamente pattuita la risoluzione”.

In giurisprudenza, è questione dibattuta se, una volta verificatasi la risoluzione di diritto ai sensi di una tra le norme sopra elencate, sia possibile per la parte adempiente rinunciare all’effetto risolutorio e pretendere, così, la controprestazione. Il problema è stato affrontato (ma non del tutto risolto) dalla Cassazione, nell’ordinanza n. 15808, depositata ieri.

Il caso di specie traeva origine dal contratto di locazione di un immobile da adibire a supermercato, risolto dal locatore per effetto di una diffida ad adempiere, a fronte del mancato pagamento dei canoni da parte del conduttore. Dopo essere rimasto silente per i diciotto mesi successivi allo spirare del termine per l’adempimento assegnato con la diffida, il locatore emetteva fattura per il pagamento dei canoni maturati (a suo dire) nel medesimo periodo, giungendo, infine, a chiedere e ottenere un decreto ingiuntivo per il corrispondente ammontare. Nel giudizio di opposizione ex art. 645 c.p.c., il decreto ingiuntivo veniva, tuttavia, revocato dal Tribunale, sul presupposto che il contratto di locazione si fosse sciolto di diritto ai sensi dell’art. 1454 c.c. La statuizione del giudice di primo grado era sorretta dall’adesione all’indirizzo giurisprudenziale che considera inammissibile la rinuncia all’effetto risolutorio da parte del contraente non inadempiente, “trattandosi di effetto sottratto, per evidente voluntas legis, alla libera disponibilità del contraente stesso” (Cass. SS.UU. n. 553/2009). Si ricorda, infatti, che l’art. 1453 comma 2 c.c. sancisce il divieto di domandare in giudizio l’adempimento quando è già stata domandata la risoluzione. Stando a questa prima lettura e alle sue evoluzioni successive, l’irrinunciabilità opera indipendentemente dal fatto che l’intervenuta risoluzione sia di tipo legale o giudiziale e la sua ratio risiede nell’esigenza di tutelare il legittimo affidamento che il debitore ha riposto sulla dissoluzione del contratto (Cass. n. 25128/2024; Cass. n. 20768/2015).

La Corte d’Appello, adita dal locatore soccombente, riformava la decisione del Tribunale sulla scorta del diverso principio secondo cui “in tema di risoluzione del contratto per inadempimento, il contraente non inadempiente, così come può rinunciare ad eccepire l’inadempimento che potrebbe dar causa alla pronuncia di risoluzione, può, del pari, rinunciare ad avvalersi della risoluzione già avveratasi per effetto o della clausola risolutiva espressa o dello spirare del termine essenziale o della diffida ad adempiere e può anche rinunciare ad avvalersi della risoluzione già dichiarata giudizialmente, ripristinando contestualmente l’obbligazione contrattuale ed accettandone l’adempimento” (cfr. Cass. n. 23824/2010; Cass. n. 9317/2016). La sentenza del giudice di seconde cure, impugnata con ricorso per cassazione, è stata cassata con rinvio dall’ordinanza n. 15808/2025, in quanto fondata su un’astratta e non sufficientemente motivata adesione alla tesi che considera rinunciabile l’effetto risolutivo di diritto.

Pur senza prendere posizione sul contrasto interpretativo evidenziato finora, la pronuncia in commento ha affermato che l’ammissibilità della rinuncia alla risoluzione potrebbe essere: negata, nel caso di mancata opposizione della controparte alla risoluzione di diritto; confermata, a fronte dell’altrui contestazione della produzione dell’effetto risolutivo, posto che in tale ultima ipotesi la rinuncia alla risoluzione si risolverebbe nel riconoscimento (anche solo tacito) della fondatezza delle altrui argomentazioni.

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