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I conflitti sul lavoro non sono per forza mobbing

/ REDAZIONE

Lunedì, 15 febbraio 2010

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I conflitti sul luogo di lavoro non si configurano necessariamente come mobbing. L’ha stabilito il TAR del Lazio con la sentenza n. 1963 dell’11 febbraio 2010, respingendo il ricorso di un dirigente pubblico che, trasferito a un ufficio nel quale gli erano stati affidati compiti non corrispondenti alle proprie capacità professionali, lamentava di essere stato vittima di “mobbing”.

In particolare, il giudice amministrativo ricorda che, sotto il profilo definitorio, il “mobbing” consiste in una condotta del datore di lavoro (o del superiore gerarchico) sistematica e protratta nel tempo, connotata dal carattere della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del lavoratore e a creare una lesione della sua integrità psico-fisica e personalità. Perché una condotta aziendale possa essere considerata “mobbizzante” devono quindi coesistere questi elementi: molteplicità dei comportamenti di carattere vessatorio, illeciti o anche leciti se singolarmente considerati, posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente; lesione della salute o della personalità di quest’ultimo; nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e il pregiudizio arrecato all’integrità psico-fisica e alla personalità del lavoratore; prova dell’esistenza di un vero e proprio “disegno persecutorio”.
Da questi principi consegue che, come nel caso preso in esame, l’ipotesi di mobbing deve essere esclusa quando la valutazione delle circostanze, pur rivelando elementi di conflitto, non consenta di individuare anche il carattere unitariamente persecutorio e discriminante degli atteggiamenti nei confronti del lavoratore. (Redazione)

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