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EDITORIALE

Quoziente familiare? Ci danno il redditometro

/ Enrico ZANETTI

Lunedì, 30 agosto 2010

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Nei giorni scorsi le cronache politiche ci hanno raccontato di un Silvio Berlusconi in pressing sempre più serrato su Casini, per convincerlo a puntellare la maggioranza che sostiene il suo governo.
Secondo quelle stesse cronache, alla fine non se ne farà niente (per la sempre più ostentata incompatibilità reciproca tra UDC e Lega), ma uno degli elementi, che avrebbe forse potuto indurre l’UDC a valutare una simile ipotesi, sarebbe stato rappresentato dall’assunzione da parte del governo dell’inequivoco impegno di adoperarsi per introdurre finalmente nel sistema fiscale il c.d. “quoziente familiare”, ossia il meccanismo mediante il quale la base imponibile su cui si applicano le imposte sui redditi viene “spalmata” tra i componenti del nucleo familiare, premiando così, con una progressività di aliquota meno feroce, le famiglie più numerose e monoreddito.

A parte il fatto che piacerebbe tanto a tutti noi credere davvero che, nei giochi politici di questa classe dirigente, le contropartite oggetto di feroce e appassionata negoziazione politica siano questo genere di cose, anziché più banalmente poltrone ed equilibri di potere, ciò che rende di assai difficile attuazione il quoziente familiare è il suo costo, perché genererebbe minori entrate fiscali per svariati miliardi di euro: da un minimo di 3 a un massimo di 9; ma, come l’ampiezza stessa della forbice testimonia, si tratta di stime ancora molto approssimative.

In verità, se si investissero le maggiori entrate attese nel prossimo biennio dalla lotta all’evasione fiscale, i soldi vi sarebbero eccome.
Peccato che, sistematicamente e dai governi di ogni colore, le previsioni di entrata dalla lotta all’evasione vengono utilizzate non per ridurre le imposte ai cittadini che le pagano (tradendo la promessa “pagare tutti per pagare meno”), ma per ridurre i deficit di bilancio generati da una spesa pubblica che, numeri alla mano, anche quando viene tagliata è in realtà solo rallentata nella sua comunque inarrestabile crescita.

Quello che, però, rende ancor più indifferibile di prima un serio ragionamento sul quoziente familiare, è il lavoro che l’Agenzia delle Entrate sta portando avanti sul c.d. “nuovo redditometro”.
Nel delirio agostano di dichiarazioni in crescendo rossiniano contro l’evasione fiscale e gli evasori fiscali (l’unico reato che sembrerebbe indignare profondamente la nostra classe dirigente, politica e sindacale, per il resto sempre molto incline al garantismo più esasperato), tutti si sperticano nel lodare il redditometro.

Noi lo lodavamo tre anni fa, due anni fa, l’anno scorso: ora che abbiamo capito quello che sta venendo preparato, non lo lodiamo più: lo chiamano “nuovo redditometro”, ma in realtà è uno “studio di settore per privati”.
Infatti, leggendo tra le righe delle dichiarazioni dei funzionari di vertice dell’Agenzia delle Entrate (e conoscendo qualcosa del “dietro le quinte”), ci si può rendere conto che il redditometro che si sta mettendo a punto non si limiterà, come invece dovrebbe, a prevedere dei coefficienti che consentano di quantificare monetariamente le implicite spese di gestione sostenute da un contribuente nell’anno per potersi permettere il mantenimento e l’uso di beni patrimoniali di cui il Fisco, grazie anche all’anagrafe tributaria, accerta la disponibilità.

Il sedicente “nuovo redditometro” punta a trasformare in capacità contributiva, attraverso coefficienti di estrapolazione statistica (come gli studi di settore), anche ciò che il fisco non ha avuto modo di accertare e, quindi, anche ciò che, fino a prova contraria da parte del Fisco, potrebbe tranquillamente non esistere (solo che l’onere della prova si inverte a carico del cittadino).

Un maggiore reddito, dunque, presunto non solo secondo le spese accertate e la “monetizzazione” delle spese di gestione dei beni accertati, ma anche sulla base del costo della vita della città in cui si risiede (più è alto e più si presume che tu faccia tante piccole spese in più e sei tu a dovermi dimostrare che non le fai) e sulla base della composizione del nucleo familiare di appartenenza (più alto è il numero dei familiari a tuo carico e più si presume che tu possa permetterti spese varie a loro favore e sei sempre tu a dovermi dimostrare che non le sostieni).

Capito quindi perché, se nella politica fiscale italiana vi fosse un briciolo di decenza, sarebbe da considerarsi indifferibile l’introduzione del quoziente familiare?
Perché altrimenti siamo in un sistema in cui, quando è il momento di pagare le tasse sul reddito che si dichiara, i familiari a carico per molti contribuenti sono considerati dal Fisco irrilevanti o quasi ai fini dell’abbattimento del carico fiscale; quando è invece il momento del Fisco di accertare e presumere redditi, scaricando sul contribuente l’onere di provare il contrario, ecco che i familiari a carico diventano addirittura un elemento di capacità contributiva, sulla cui base chiedere eventualmente maggiori imposte al contribuente.
Senza parole.

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