Perché è meglio non aumentare i contributi
Caro Direttore,
vorrei riportare qualche riflessione rispetto alle novità in materia previdenziale emerse sulla stampa specializzata. Anzitutto, sembrano ormai acquisite e metabolizzate ben tre condizioni. La prima è che la Cassa di Previdenza è finanziariamente solida, in equilibrio, ma sempre meno in grado per il futuro di erogare trattamenti adeguati. La seconda, che il tasso di sostituzione, quello che, per intenderci, ci dice quanta parte del nostro reddito va persa quando si trasforma in pensione, in un sistema di tipo contributivo, è dato dal rapporto tra pensione e reddito professionale medio dell’intera vita lavorativa. La terza è che versando il 10% di contributo soggettivo, secondo le regole attuali, si ottiene un tasso di sostituzione intorno al 20%. Quindi, con un reddito medio dell’intera vita professionale pari a 70.000 euro, si ottiene una pensione di circa 14.000. Si pone dunque con forza il problema dell’adeguatezza: quali sono le soluzioni prospettate?
In prima battuta, l’idea è stata quella della persuasione: cari colleghi, potendo scegliere tra un contributo soggettivo con aliquota variabile dal 10 al 17%, versate il massimo. Peccato che molti colleghi, giovani e non, a malapena riescono a versare il minimo obbligatorio del 10%. Così si passa alla seconda fase, la persuasione forzata, e si chiede alla stessa categoria generazionale che ha già subìto l’inevitabile passaggio al sistema contributivo, di pagare, obbligatoriamente, più contributo soggettivo, elevando i minimi ad esempio al 12%. L’aumento viene giustificato affermando che, solo così, il Ministero sarebbe favorevole a permettere la retrocessione di una parte del 4% di integrativo sulle posizioni soggettive. In proposito, faccio presente di non aver mai letto o ascoltato un indirizzo ministeriale in tal senso. E mi permetto di aggiungere che la nostra CNPADC, imponendosi, con grandi sacrifici, il passaggio al metodo contributivo, ha raggiunto l’obiettivo della sostenibilità, il tutto senza in alcun modo gravare sulle casse erariali. Pertanto, la possibilità di retrocedere quota parte del contributo integrativo sulle posizioni soggettive degli iscritti alla CNPADC dovrebbe essere riconosciuta a priori, in virtù dei sacrifici fin qui sopportati e senza chiederne di ulteriori. Inoltre, è il caso di osservare che fissare, a tempo indeterminato, il contributo integrativo al 4% converrebbe anche all’Erario, visto che sullo stesso si paga l’IVA.
L’eventuale ritorno a un contributo integrativo del 2% andrebbe in ogni caso valutato: la nostra Cassa sarebbe comunque in equilibrio, e il differenziale di 2% potremmo scegliere di versarlo in aggiunta al 10% di contributo soggettivo, con un impatto diretto sulla futura pensione individuale. Qualcuno ribatte affermando che il 4% di integrativo si ribalta sul cliente. A tale tesi, è opportuno osservare che, in presenza di clienti caratterizzati da spiccata elasticità della domanda, che potrebbero addirittura concordare compensi “tutto compreso”, il contributo integrativo grava completamente sull’iscritto alla Cassa di Previdenza e, quindi, si tratta di un contributo soggettivo occulto. Diversamente, in presenza di domanda rigida, fenomeno sempre più raro per le nostre attività professionali, il cliente non dovrebbe avere nessun problema ad accordare un aumento dei compensi in misura del 2% e questo maggior fatturato potremmo essere liberi di versarlo quale maggior contributo soggettivo. Il 2% di fatturato, liberamente versato sulla posizione soggettiva, potrebbe valere il 4% del reddito, ad esempio in presenza di costi professionali pari al 50% del fatturato. Viste le considerazioni fin qui riportate, spero che l’idea di un incremento dell’aliquota minima obbligatoria dei contributi soggettivi venga abbandonata.
Da ultimo, voglio spendere qualche parola sulla problematica dei diritti acquisiti. La CNPADC, pur ottenendo un gettito modesto, ha chiesto ai pensionati la corresponsione di un contributo di solidarietà quale sorta di onere morale, a carico di coloro che hanno beneficiato di un sistema di calcolo della pensione estremamente favorevole. La Cassazione sembra non aver gradito il fatto che si siano intaccati dei diritti acquisiti. Al riguardo, viene da chiedersi: tra costi legali e condanne alle spese di giudizio, considerato il modesto gettito derivante dal contributo di solidarietà, in termini finanziari, ha senso mantenerlo? Detto ciò, la questione dei diritti acquisiti deve essere quanto prima affrontata e risolta, e l’ordinamento giuridico non dovrebbe fornire protezione a coloro che hanno scaricato, tra l’altro in tempi di vigore economico, l’onere delle pensioni, per la quasi totalità sulle generazioni successive. Si assiste al paradosso per cui i dottori commercialisti che hanno svolto l’attività professionale in un periodo storico di forte crescita economica hanno imposto ai loro “successori”, ovvero professionisti che operano nell’attuale contesto di persistente crisi, di pagare le loro pensioni. Oggi, chi paga le pensioni di coloro che hanno versato poco rischia di non riuscire ad accantonare per se stesso. La soluzione del problema dei diritti acquisiti non è affatto facile, ma è indispensabile che si lavori per trovare un migliore equilibrio tra generazioni, senza chiedere ulteriori sacrifici alle classi anagrafiche che già subiscono gli effetti del contributivo.
Andrea Liparata
Delegato assemblea CNPADC
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