Le stranezze interpretative dell’Agenzia in tema di archivio VIES
Caro Direttore,
ti scrivo perché l’altra sera, leggendo con interesse la circolare Agenzia delle Entrate n. 39 del 1° agosto 2011, sull’“Adeguamento alla normativa europea in materia di operazioni intracomunitarie ai fini del contrasto delle frodi”, attendevo, come tanti colleghi, una risposta più “meditata” da parte della stessa Agenzia con riferimento alla necessaria presenza nell’archivio VIES al fine di possedere soggettività attiva e passiva nelle operazioni comunitarie.
Le pregevoli osservazioni su tale questione, da parte di illustre dottrina, lasciano spazio, a mio sommesso parere, a un’ulteriore evidente e non ancora rilevata, per quanto mi consta, anomalia nell’esposizione dell’Agenzia delle Entrate. Faccio riferimento a quanto precisato, a paragrafo 3, della summenzionata circolare, in cui viene affermato che “il prestatore comunitario deve ottenere tale prova consultando i dati presenti nell’Archivio VIES. La successiva lettera b), invero, considera anche la situazione in cui il committente «non ha ancora ricevuto un numero individuale di identificazione IVA» ma ne ha chiesto l’attribuzione, ammettendo in tal caso una diversa possibilità, per il prestatore, di ottenere la prova in questione. Tale previsione, tuttavia, riguarda evidentemente i soli Paesi nei quali l’attribuzione del numero individuale di identificazione IVA non avviene contestualmente alla richiesta del contribuente. Ad essa è dunque del tutto estraneo il caso dei committenti italiani ai quali, come noto, il numero individuale di identificazione IVA viene attribuito contestualmente alla richiesta.”
Tutto ciò è palesemente incoerente e comporta una discriminazione a sfavore dei soggetti stabiliti in Italia rispetto ai soggetti stabiliti in altri Paesi. Infatti, se è vero, come è vero, che il soggetto passivo italiano ottiene la partita IVA immediatamente, è anche vero che, per effetto della normativa commentata dall’Agenzia delle Entrate, lo stesso soggetto non sarà “visibile” in ambito comunitario per i primi 30 giorni dall’inizio dell’attività. Quindi, il paradosso di una simile affermazione, a commento della disposizione del Regolamento UE n. 282/2011, art. 18, comma 1, lett. b), è che un soggetto comunitario, stabilito in un Paese che non attribuisce immediatamente la partita IVA (a mio avviso in modo, a questo punto, più trasparente), può provare lo status di soggetto passivo con altri strumenti, mentre il soggetto passivo stabilito in Italia, che, contrariamente all’omologo estero, ottiene il numero di partita IVA, non può provare lo status di soggetto passivo in quanto deve attendere 30 giorni per essere visibile dalla controparte e, sempre secondo l’Agenzia, per acquisire la soggettività per porre in essere le citate operazioni.
Stranezze interpretative.
Massimo De Nardi
Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Treviso
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