Omessa comunicazione di variazioni patrimoniali possibile con successione ereditaria
Le Sezioni Unite si pronunciano sul principio di offensività del reato: da provare l’idoneità della condotta a porre in pericolo il bene giuridico protetto
Il reato di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali, previsto dagli artt. 30 e 31 della L. 646/1982, è configurabile nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria, fermo restando l’onere del giudice di verificare, dandone adeguata motivazione, l’idoneità della condotta tenuta a porre in pericolo il bene giuridico protetto, alla stregua del canone di offensività in concreto.
Tale è il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 18474, le cui motivazioni sono state depositate ieri.
Il citato art. 30 richiede che le persone condannate con sentenza definitiva per gravi reati – tra cui associazione di stampo mafioso, terrorismo, reati tributari, trasferimento fraudolento di valori (così come richiamati dall’art. 51 comma 3-bis c.p.p. e dall’attuale art. 512-bis c.p.) – oppure già sottoposte, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione ai sensi del Codice antimafia (DLgs. 159/2011), siano tenute a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore a 10.329,14 euro.
In relazione a tale obbligo il successivo art. 31 prevede la reclusione da due a sei anni oltre a una severa multa per chiunque ometta di comunicare entro i termini stabiliti le variazioni patrimoniali indicate. Alla condanna segue la confisca dei beni a qualunque titolo acquistati nonché del corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati. Nei casi in cui non sia possibile procedere alla confisca dei beni acquistati ovvero del corrispettivo dei beni alienati, il giudice ordina la confisca, per un valore equivalente, di somme di denaro, beni o altre utilità dei quali i soggetti di cui all’art. 30 hanno la disponibilità.
Nel procedimento all’esame delle Sezioni Unite un soggetto, già condannato per associazione di stampo mafioso ex art. 416-bis c.p., risultava aver ricevuto quota parte di beni per successione.
Secondo la Cassazione non è possibile individuare “categorie di atti” di rilievo patrimoniale “sottratti” in quanto tali all’ambito applicativo della disposizione incriminatrice, che il legislatore non ha voluto circoscrivere a specifiche tipologie. Tale conclusione, oltre a essere rispettosa del tenore letterale della disposizione, tiene conto della variabilità delle situazioni di fatto, che impediscono di impostare la risposta al quesito in termini “categoriali”.
Tuttavia le motivazioni si soffermano a lungo sul principio di offensività che fonda l’applicazione di ogni sanzione di natura penale.
Dal momento che il fenomeno della successione ereditaria può atteggiarsi in forme giuridiche sensibilmente diverse e può avere a oggetto compendi patrimoniali di diversa entità, la verifica dell’assenza di condizionamenti – pregressi all’evento morte – sulla “composizione e derivazione” di quanto caduto in successione è doverosa anche per i riflessi sulla concreta offensività della condotta di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali.
La ratio del reato in esame è, infatti, rappresentata dalla realizzazione di un doveroso monitoraggio sulle iniziative patrimoniali del soggetto riconosciuto come pericoloso. E il bene giuridico oggetto di tutela è da individuarsi nell’ordine pubblico inteso, sul versante economico, come l’assenza di alterazioni della libertà di concorrenza e della libertà di iniziativa a causa dell’agire di organizzazioni di stampo mafioso o assimilabili.
Da ciò consegue, nel caso concreto, che l’aver omesso di comunicare l’acquisizione di beni a titolo successorio, pur rientrando nella astratta dimensione tipica (si tratta, pur sempre di una variazione della consistenza patrimoniale), può essere ritenuto qui inoffensivo e dunque non punibile.
Si richiama, infatti, quanto espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 99/2017, che ha ritenuto necessaria la verifica “in concreto” (appunto) della offensività della singola omissione, evidenziando come – specie nel caso di atti sottoposti a regime di pubblicità – il giudice del merito sia tenuto a fornire una motivazione “in positivo” che non si limiti alla verifica del dolo generico ma che investa il tema della idoneità della condotta a porre in pericolo il bene giuridico protetto.
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