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Sabato, 6 settembre 2025 - Aggiornato alle 6.00

ECONOMIA & SOCIETÀ

Lo stress sul lavoro è diventato una questione organizzativa

Serve andare oltre l’obbligo normativo e iniziare a considerarlo come un campanello d’allarme

/ Emanuela BARRERI

Sabato, 6 settembre 2025

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Lo stress sul lavoro non è più soltanto un problema individuale o clinico. È diventato una questione organizzativa, culturale, persino strategica. E, se vogliamo, anche etica. Perché dietro il termine “stress” si nascondono esperienze concrete di fatica, solitudine, frustrazione, che toccano la qualità della vita delle persone e il funzionamento delle organizzazioni.

Il DLgs. 81/2008 impone la valutazione del rischio stress lavoro-correlato. Ma non basta inserire una voce nel DVR per prendersi cura davvero di questo fenomeno. Serve andare oltre l’obbligo normativo e iniziare a considerare lo stress un campanello d’allarme, un indicatore di malessere che riguarda il clima interno, i carichi cognitivi, le relazioni e la qualità della leadership.

Lo stress non è tutto uguale. C’è uno stress positivo, l’eustress, che stimola e ci aiuta a crescere. E c’è il distress, che invece logora, porta a disimpegno, assenteismo e tensioni. Il problema non è la sfida, ma la percezione di non farcela. Ed è lì che il lavoro smette di essere energia e diventa peso.

La pandemia ci ha costretti a cambiare ritmi, spazi e priorità. Ci ha lasciato una maggiore vulnerabilità e, al tempo stesso, una nuova consapevolezza: non possiamo più permetterci di ignorare i segnali del corpo, dell’umore, delle relazioni.

Molto spesso lo stress si manifesta in modo silenzioso: una stanchezza che non passa, un’irritabilità che si trasforma in conflitto, una fatica che diventa abitudine. Il rischio è che ci si abitui anche al malessere, normalizzandolo, finché non si arriva a un punto di rottura.

Cosa fare, allora?
In primo luogo, serve osservazione. Di sé, degli altri, dei segnali. Saper distinguere tra ciò che è fisiologico e ciò che invece segnala un sovraccarico. Poi, occorre agire su due piani: quello individuale e quello organizzativo.

A livello personale, significa investire tempo per fermarsi, riflettere, capire come stiamo. Allenare la consapevolezza, la capacità di porre confini, coltivare relazioni autentiche. Le soft skills non sono solo “abilità gentili”. Sono competenze fondamentali per reggere la complessità, per affrontare i momenti di pressione senza esserne travolti.

Sul piano organizzativo, significa creare ambienti in cui sia possibile parlare apertamente di stress, senza stigma. Formare i leader ad ascoltare e non solo a dirigere. Dare strumenti di supporto, spazi di confronto, momenti di rilettura dell’esperienza. Semplificare, chiarire ruoli, evitare ambiguità.

Non si tratta di eliminare lo stress, ma di gestirlo. E per farlo serve un cambio di cultura: considerare il benessere non come un benefit opzionale, ma come una parte integrante del lavoro. Perché se le persone stanno bene, lavorano meglio. E se l’organizzazione funziona, la fatica ha un senso.

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