La Cassazione torna a pronunciarsi in materia di impresa familiare
La quota di partecipazione all’incremento di valore aziendale va calcolata in base alla quantità e alla qualità del lavoro prestato
Con l’ordinanza n. 32678/2025, la Cassazione si è pronunciata in materia di impresa familiare, con specifico riferimento ai criteri di determinazione della quota di partecipazione all’incremento del valore aziendale in favore del lavoratore che abbia prestato la sua attività in modo continuativo e prevalente.
Il caso di specie vedeva protagonista una lavoratrice, la quale aveva agito in giudizio nei confronti dei genitori dichiarando di aver prestato la sua attività, a far data dall’anno 2007, nell’impresa familiare – un’azienda agricola –, tutti i giorni della settimana, fino al 2015, quando era stata estromessa; la stessa aveva altresì affermato che i genitori le avevano promesso un compenso nel corso degli anni, nonché come il valore dell’impresa familiare fosse, nel frattempo, aumentato. A fronte di ciò, le richieste della collaboratrice vertevano, tra le altre cose, sul diritto al mantenimento, nonché sull’accertamento del suo diritto ad una quota del 49% dell’incremento di valore dei beni aziendali.
Già il giudice di prime cure aveva rigettato le domande della lavoratrice: secondo il Tribunale, quest’ultima, con riferimento al mantenimento, non aveva affermato di essere stata privata dai genitori di quanto necessario a soddisfare le proprie esigenze di vita, né aveva offerto prova del prospettato incremento di valore.
Di diverso avviso la Corte d’Appello, che aveva parzialmente accolto il gravame della lavoratrice, riconoscendole una somma a titolo di partecipazione agli incrementi aziendali ex art. 230-bis c.c.
In primo luogo, l’esame della Corte aveva avuto ad oggetto la circostanza per cui la collaboratrice avesse effettivamente prestato continuativamente la sua opera di lavoro nell’impresa; in particolar modo, nel ramo d’azienda consistente nella gestione della struttura agrituristica, svolgendo un ruolo di assistenza e consulenza tecnica a favore della madre, in campo legale, burocratico-amministrativo e, infine, progettuale, architettonico ed estetico.
Ciò appurato, mediante l’analisi del materiale probatorio, i giudici di seconde cure avevano evidenziato come il mantenimento ex art. 230-bis c.c. non sia una vera e propria retribuzione, avendo tutt’al più una finalità assistenziale, nell’ottica della solidarietà endofamiliare. Da qui, il contenuto del mantenimento va determinato con riguardo ai bisogni di vita del familiare lavoratore e alle condizioni patrimoniali della famiglia: nel caso di specie, la lavoratrice aveva convissuto con i genitori, ricevendo vitto e alloggio e non aveva dimostrato di aver dovuto provvedere in altro modo ai suoi bisogni abitativi ed alimentari.
Invece, circa il diritto ad una quota dell’incremento di valore dell’azienda, la Corte, premesso che, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., va utilizzato il criterio della proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, aveva evidenziato come, con riferimento al profilo della quantità, le prove fornite dalla lavoratrice fossero insufficienti. Diversamente, circa la qualità, veniva riconosciuto come la stessa avesse provato il proprio apporto lavorativo, per quanto riguarda gli aspetti “fiscali, finanziari, edilizi, estetici e commerciali del ramo agrituristico dell’impresa”. Quindi, al fine di liquidare il suo diritto di partecipazione all’incremento di valore dell’impresa, la Corte aveva ritenuto “più logico” far riferimento alle tariffe che regolano i compensi dovuti a professionisti come avvocati, commercialisti e architetti, operando però una riduzione, non avendo la lavoratrice una specifica preparazione ed esperienza professionale: pertanto, la Corte aveva riconosciuto il compenso di 30.000 euro, pari ad una partecipazione del 6% circa all’incremento di valore del ramo agrituristico dell’azienda.
A fronte di ciò, la lavoratrice aveva presentato ricorso in Cassazione, lamentando, tra le altre cose, la violazione dell’art. 230-bis c.c. per avere, i giudici di appello, utilizzato un metodo errato nella determinazione e nella liquidazione della quota di partecipazione all’incremento di valore dell’azienda.
Investita della vicenda, la Cassazione rigetta le domande della lavoratrice.
Infatti, chiarisce la Suprema Corte, l’art. 230-bis c.c. impone di determinare la quota di partecipazione del collaboratore all’incremento di valore dell’azienda in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato: in tal senso, il metro di valutazione fatto proprio dai giudici d’appello, deve ritenersi conforme ai parametri menzionati.
A ben vedere, afferma lapidariamente la Corte, la valutazione circa la continuità dell’apporto lavorativo e della prevalenza rispetto ad altre occupazioni della lavoratrice è un fatto “neutro” rispetto all’operazione di determinazione della sua quota di partecipazione all’incremento del valore aziendale. Tale, ultima, operazione deve tenere conto della quantità e della qualità delle prestazioni lavorative, le quali però devono sempre essere verificate e valutate alla luce del risultato finale, rappresentato, come detto, dall’incremento del valore aziendale.
Vietate le riproduzioni ed estrazioni ai sensi dell’art. 70-quater della L. 633/1941