Responsabilità determinata con i netti patrimoniali per il liquidatore di fatto
La Cassazione evidenzia come il ricorso al criterio equitativo sia possibile in presenza di un danno certo ma difficile da stimare
La Cassazione, nell’ordinanza n. 33730, depositata ieri, ha precisato che del danno da aggravamento del dissesto di una società, determinabile tramite il ricorso al criterio equitativo della differenza dei netti patrimoniali, rispondono anche il liquidatore di diritto e di fatto che abbiano illecitamente ritardato la presentazione dell’istanza di fallimento (oggi di liquidazione giudiziale) in proprio.
I liquidatori, infatti, così come gli amministratori, sono responsabili del danno derivante dal fatto di avere omesso o ritardato colpevolmente la presentazione dell’istanza di fallimento nei confronti della stessa, come imposto dagli artt. 217 comma 1 n. 4 e 224 n. 1 del RD 267/42. Di ciò rispondono sia i titolari formali della carica che quelli di fatto.
Il liquidatore di fatto è da identificare, analogamente a quanto accade per l’amministratore di fatto, nel soggetto che, seppure privo della relativa investitura formale, si sia ingerito nella liquidazione della società, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative in modo completo e sistematico. Peraltro, sottolinea la decisione in commento, il requisito della sistematicità può ritenersi superfluo quando il liquidatore di fatto abbia compiuto o concorso a compiere atti come la scelta di “procrastinare per oltre tre anni una situazione di insolvenza”; trattandosi di una scelta di rilevanza tale da dimostrare comunque l’effettivo inserimento dello stesso nella gestione della società.
Nel caso in cui i liquidatori (al pari degli amministratori) della società abbiano indebitamente omesso di chiedere l’apertura della procedura di fallimento in proprio ed abbiano, così, contribuito ad aggravare lo stato di dissesto della società, il danno che tale ritardo ha (illegittimamente) provocato dovrebbe essere individuato nella sommatoria tra l’incremento del valore del passivo e/o la riduzione del valore dell’attivo registrata nel periodo in cui è indebitamente proseguita l’attività sociale.
Tuttavia, quando risulti impossibile una ricostruzione analitica dei valori dell’attivo e del passivo a tal fine rilevanti, la liquidazione del danno può essere legittimamente operata, in via equitativa, ricorrendo al criterio presuntivo della “differenza dei netti patrimoniali” (cfr. Cass. n. 24431/2019).
In particolare, il pregiudizio può essere individuato – in via presuntiva e fatta salva la prova contraria – nell’insieme delle perdite verificatesi tra il momento in cui è accertato lo stato d’insolvenza della società e la formale dichiarazione di fallimento della stessa, dedotte quelle (perdite) che si sarebbero verificate anche se la società fosse stata tempestivamente assoggettata al fallimento (cfr. Cass. n. 17033/2008).
In altre parole, il pregiudizio può essere individuato in misura pari alla differenza tra i netti patrimoniali quando non è possibile un rigoroso e distinto accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili all’illecita prosecuzione dell’attività sociale e ove siano emersi in giudizio inadempimenti idonei, almeno in astratto, ad arrecare un danno di tale dimensione (cfr. Cass. n. 24431/2019); ossia un danno pari alla differenza tra il valore (di liquidazione) del patrimonio netto (attivo - passivo) al momento in cui la società era in stato di insolvenza e doveva esserne, di conseguenza, dichiarato il fallimento e il valore (di liquidazione) del patrimonio netto (attivo - passivo) al momento della dichiarazione di fallimento.
Occorre, peraltro, una contabilità societaria che consenta almeno l’identificazione dei dati necessari per il calcolo dei netti patrimoniali nei momenti indicati.
Solo per tal via il danno può essere determinato nella misura corrispondente, non già alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede concorsuale, ma alla “perdita incrementale derivante dalla prosecuzione dell’attività” (cfr. Cass. n. 17033/2008); e, quindi, alla differenza che dovesse risultare tra la situazione patrimoniale della società nel momento in cui si è verificato lo stato d’insolvenza – perché avrebbe imposto la presentazione della domanda di fallimento da parte dei suoi legali rappresentanti (e, dunque, la cessazione della relativa attività, compresa la liquidazione) – e la situazione patrimoniale della società nel momento in cui è stata, in seguito, formalmente pronunciata la sentenza dichiarativa del fallimento.
Ciò in quanto si tratta di una misura che, in modo sintetico ma plausibile, registra la diminuzione di valore che il patrimonio sociale ha subito in conseguenza dell’indebita prosecuzione dell’attività.
D’altra parte, conclude la Suprema Corte, il giudice può ricorrere a criteri equitativi di liquidazione del danno, ex art. 1226 c.c., ove ne sussistano le condizioni (e cioè l’esistenza di un danno certo e l’impossibilità o la rilevante difficoltà nella stima esatta dello stesso) anche senza (e, dunque, anche contro la) domanda della parte danneggiata, trattandosi di criterio rimesso al suo prudente apprezzamento.
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