Riforme fiscali inutili senza interventi sulla spesa
La spesa pubblica negli ultimi anni ha avuto un aumento ben superiore al tasso d’inflazione. Non è possibile pensare ad una riforma fiscale efficace senza interventi anche sul fronte delle uscite
Si parla molto di riforma fiscale come di uno degli snodi fondamentali per la ripartenza del Paese.
Chi, come i commercialisti italiani, conosce assai bene i pochi pregi e i molti difetti del nostro sistema tributario, non può che essere d’accordo.
Vi è tuttavia da chiedersi quale concreto beneficio ne potrà trarre il nostro Paese, se non si comincia prima a ragionare sull’altro versante del bilancio dello Stato: quello della spesa.
Dal 2000 al 2008, anno dopo anno, la spesa pubblica è cresciuta del 40,8%, passando da 550 miliardi di euro annui a 775 (le stime del 2009 in via di consuntivazione portano all’abnorme cifra di 798 miliardi).
Se la spesa pubblica fosse cresciuta in misura pari al tasso di inflazione (rimanendo quindi costante in termini reali, senza aumenti, ma pure senza riduzioni), sarebbe aumentata in termini nominali “soltanto” del 20,9% (la metà) e in questo arco temporale si sarebbero così spesi circa 570 miliardi in meno.
Questa minore spesa di circa 570 miliardi in meno avrebbe significato il sostanziale mantenimento del debito pubblico sul livello di quello del 2000 (1.300 miliardi di euro).
Esso invece è arrivato nel 2008 alla ancor più temibile somma di 1.662 miliardi di euro (le stime del 2009 parlano di un ulteriore spaventoso incremento fino a 1.761 miliardi).
Quando si parla di debito pubblico, si è soliti parlarne come di un fardello del passato che prescinde dalle colpe della classe politica che ha governato in questi ultimi quindici anni.
In realtà, il 21,8% del debito nominale (oltre un quinto del totale) si è generato negli anni che vanno appena dal 2000 al 2008 (addirittura il 35,4%, ossia oltre un terzo del totale, se consideriamo anche l’annus horribilis 2009).
Eppure, per evitare tutto questo, non serviva neppure ridurre la spesa pubblica: bastava non aumentarla oltre il tasso di inflazione.
Né si può dare colpa di tutto questo alla spesa per gli interessi passivi sul debito pregresso, perché, grazie a tassi favorevoli, la loro incidenza è anzi diminuita nell’arco di tempo considerato (ed è meglio non pensare cosa accadrebbe ove i tassi tornassero sui livelli iniziali).
Usare il 2000 come anno di partenza in queste analisi è utile non soltanto per enucleare le dinamiche di questo inizio di terzo millennio, ma anche perché il 2000 è stato l’anno più virtuoso dei conti pubblici italiani dal 1981 in poi.
Di fatto, è l’anno in cui sembra essere stato tacitamente (e inopinatamente) accantonato il grande sforzo di risanamento che aveva invece caratterizzato il periodo compreso tra il 1992 (anno della quasi bancarotta del Paese) e il 2000, grazie soprattutto al contributo prevalente dei governi tecnici.
Una constatazione che sottolinea una volta di più l’importanza del “pensiero tecnico” e l’assoluta necessità di una sua rinnovata centralità nelle dinamiche socio-economiche di questo Paese, prigioniero altrimenti di un “agire politico” palesemente poco interessato a chiedere sacrifici, perché tutt’altro che propenso a dare per primo il buon esempio in questa direzione.
Ben venga dunque qualsiasi discussione su una riforma complessiva del sistema fiscale, ma con la consapevolezza che, se non si cambiano per davvero le logiche sul lato della spesa che hanno caratterizzato questo inizio di terzo millennio, il risultato sarà sempre un mero rimescolamento delle carte, anziché l’apertura di quel mazzo nuovo di cui l’economia del Paese ha bisogno per poter tornare a crescere.