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LETTERE

Riguardo ai colleghi anziani o affermati, sbagliato parlare di rendite di posizione

Giovedì, 19 maggio 2011

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Caro Direttore,
leggo con interesse la proposta del collega Giorgi, cioè di calcolare il contributo integrativo dovuto con un sistema progressivo che tenga conto dell’anzianità e del reddito (si veda la lettera di ieri, “Previdenza: occorre puntare sulla progressività del contributo integrativo”).
Posto che la pensione sarà calcolata con metodo contributivo, dal punto di vista della gestione della Cassa, nonché del principio “a ciascuno il suo”, la proposta non crea ingiustizie ed è quindi accettabile.

Tuttavia, da delegato alla Cassa, ho un forte imbarazzo nel prendere posizione sul punto, sentendo la responsabilità di dover decidere “anche per gli altri” e non solo per me, e soprattutto tenendo conto che queste sono scelte di lungo periodo, per cui dovrei neutralizzare le istanze particolari di chi oggi la pensa in un modo ma domani la penserà in un altro. Difficile dire ciò che veramente è giusto.

Si sa per certo che, versando soltanto il 10% di aliquota contributiva, chi ha redditi bassi avrà pensioni veramente “da fame”. Basti pensare che con un reddito medio di 20.000 euro, si versano 2.000 euro all’anno. In 35 anni fanno 75.000 euro. Con 75.000 euro di capitale non ci si può aspettare granché.
D’altra parte, anche con un reddito di 20.000 euro annui non si va molto lontano.

Quel che non digerisco, però, è l’idea che i professionisti anziani e/o affermati godano di una “rendita di posizione”. E mi ferisce sentirlo dire da chi appartiene a una professione economica.
Ma perché, se un’azienda ha successo, la si apprezza e non ci si scandalizza per il fatto di avere un “avviamento”, mentre se un professionista ha successo lo si bolla come “titolare di una rendita di posizione”?
Rendita quantomai effimera, tra l’altro, posto che, a differenza dell’avviamento di un’impresa, quello professionale non può essere ceduto (o lo si fa, ma “sulla fiducia”, travestendolo come patto di non concorrenza), e quindi valorizzato adeguatamente.

Se al professionista capitasse un infortunio, tutto l’investimento di una vita andrebbe in fumo.
Bisognerebbe ricordarselo prima di usare termini come “rendite di posizione”, anche quando si dibatte sul famoso “tetto al numero di incarichi di sindaco”, tema su cui questo quotidiano ha già ospitato un mio intervento (“Imporre un «tetto» al numero di incarichi va contro la qualità dei collegi” del 28 febbraio scorso).

Siamo liberi professionisti e quindi abbiamo accettato il principio secondo cui sarà il mercato a valutarci. Le “rendite di posizione” non ci appartengono, né quando da “anziani” avremo modo di raccogliere i frutti di quanto seminato in una vita, né da giovani, imponendo limiti a chi la posizione se l’è conquistata sul mercato.

Tornando al tema iniziale, io la vedo così:
- se consideriamo che tutti gli iscritti abbiano una coscienza piena delle conseguenze delle loro scelte e siano disposti ad accettare quel che il mercato offrirà loro, lascerei il sistema così com’è (contribuzione minima al 10% e facoltà individuale di innalzarla fino al 17%);
- se, invece, consideriamo che una parte degli iscritti siano “bamboccioni” incapaci di assumersi le proprie responsabilità, e che abbiano bisogno che la “mamma Cassa” decida per loro, alziamo l’aliquota minima al 12 o anche al 15%, in modo da evitare “piagnistei postumi” da parte di coloro che avranno una pensione da fame.
Personalmente, nonostante tutto, propendo per la prima posizione.


Giampiero Guarnerio
Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Milano
Delegato CNPADC

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