Una manovra che fa vincere passato e immobilismo
Entra nel vivo l’iter parlamentare che porterà alla conversione in legge della manovra aggiuntiva d’agosto.
Una manovra che, tra il 2011 e il 2014, dovrebbe garantire un miglioramento dei conti pubblici per circa 130 miliardi di euro: 2 nel 2011, 24 nel 2012, 50 nel 2013 (anno in cui ci si attende il pareggio di bilancio) e 55 nel 2014.
Poco più del 60% di questi numeri verrà prelevato dalle tasche dei cittadini, il restante 40% scarso deriverà da tagli di spesa.
Molti osservano che quasi tutte le maggiori entrate derivano da inasprimenti di tassazione, anziché da proventi della lotta all’evasione.
Osservazione corretta (solo il 7% delle maggiori entrate previste hanno questa origina), ma sorretta da una logica profondamente sbagliata.
I proventi attesi dalla lotta all’evasione devono smettere di essere utilizzati preventivamente per concorrere a coprire le manovre e devono invece cominciare ad essere utilizzati a posteriori per ridurre le imposte o, visti i tempi che corrono, per riassorbirne gli incrementi dovuti allo stato di crisi: solo così la lotta all’evasione cesserà di essere una lotta tra Stato e cittadini e diventerà una lotta tra cittadini.
Discorsi fatti mille volte, la cui attuazione pratica non è però più differibile, di fronte alla crescita impressionante della pressione fiscale che questo “uno-due” di manovra mette sul piatto: dal 42,39% del 2010 si passa a previsioni di 42,56% sul 2011, 43,59% sul 2012, 44,45% sul 2013 e 44,39% sul 2014 (si veda “Pressione fiscale record già nel 2012, con la manovra-bis” di oggi).
Per comprendere i livelli di autentica insostenibilità che attendono cittadini e imprese, basti pensare che, sino ad oggi, la soglia del 43% è stata superata solo nel 1997 (anno dell’Eurotassa) e nel 2007 (anno dell’elogio della bellezza delle tasse), mentre mai ci si è anche solo lontanamente avvicinati a quota 44%.
Allo stato attuale della manovra, pagano il conto anzitutto i titolari di redditi di lavoro dipendente, di lavoro autonomo e le imprese.
I lavoratori lo pagano attraverso il contributo di solidarietà, se i redditi che dichiarano sono elevati; attraverso il taglio di deduzioni, detrazioni e agevolazioni, se i redditi che dichiarano sono bassi.
Le imprese lo pagano attraverso norme che disincentivano gli investimenti, come quella che prevede la riformulazione peggiorativa delle aliquote di deducibilità fiscale degli ammortamenti; e norme che appesantiscono il rilancio, come quella che impone comunque di pagare le imposte sul 20% del reddito imponibile anche se si dispone di perdite fiscali pregresse che potrebbero interamente compensarli.
Per le imprese del settore bancario e assicurativo e per quelle del settore energetico, bisogna poi aggiungere, rispettivamente, un’addizionale IRAP e un’addizionale IRES.
Se l’asse portante delle maggiori entrate è rappresentata dall’inasprimento del prelievo sui redditi di lavoro e produzione, non manca un intervento anche sul fronte di taluni redditi di derivazione patrimoniale e, in una certa qual misura, sui patrimoni stessi che li producono: in questo senso si pongono l’incremento dal 12,5% al 20% delle rendite finanziarie e il superbollo sulle consistenze dei conti di deposito dei titoli.
Emerge così con chiarezza un quadro in cui, se si decide di mettere le mani in tasca agli Italiani, si preferisce tutelare il risparmio già accumulato (patrimonio), rispetto alla possibilità di risparmio prospettico (reddito disponibile); e, se si decide di mettere in discussione il patrimonio ed i frutti che produce, si preferisce tutelare l’investimento in immobili, rispetto a quello mobiliare in titoli azionari e obbligazionari.
Cosa, se non questo, è l’identikit di un Paese che, tra difesa del passato e scommessa sul futuro, sceglie la difesa ad oltranza del passato; e, tra essere mobile ed essere immobile, sceglie di essere immobile?
Non stupisce che, in tutto questo, si assista anche ad una trasversale difesa ideologica sul fronte delle pensioni, nonostante siano in discussione proposte che hanno come obiettivo l’allineamento dei parametri a quelli vigenti in altri Paesi europei.
Serve un nuovo modo di ragionare, a destra come a sinistra, o non ne andremo fuori.
Possibilmente, già in occasione di questo iter di conversione in legge.
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