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EDITORIALE

Manifesti per l’Italia e occasioni perse per il Paese

/ Enrico ZANETTI

Sabato, 1 ottobre 2011

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Il progetto delle imprese per l’Italia, presentato ieri da Confindustria, Rete Imprese, ABI, ANIA e Alleanza delle cooperative italiane, è oggettivamente condivisibile nella grandissima parte delle proposte in cui si struttura. Alcune di queste, in verità, hanno per i commercialisti italiani il sapore del già vissuto.

Era maggio 2010 quando, all’Assemblea nazionale dei delegati tenutasi a Roma, molto di quel che si legge nel documento di ieri era già stato messo nero su bianco. Ad esempio, la necessità di ridurre la pressione fiscale sui redditi di lavoro e produzione anche a costo di rassegnarsi a introdurre, in contropartita, nuove forme di prelievo di tipo patrimoniale. Ancora, l’esigenza di arrestare e invertire la folle crescita della spesa pubblica verificatasi non soltanto nei meandri di un lontano passato di cui l’attuale classe politica può considerarsi monda da colpe, ma anche e moltissimo negli anni dal 2001 al 2009.

Sempre in quel documento di un anno e mezzo fa, si leggono altre affermazioni oggi date quasi per scontate, ma all’epoca considerate a mezza via tra il visionario e l’eretico: la necessità di puntare a quel pareggio di bilancio mai raggiunto prima nella storia repubblicana, nonostante molti altri Paesi europei vi fossero episodicamente riusciti; la prevedibile inutilità sul breve periodo del federalismo fiscale, in quanto costruito secondo modelli di funzionamento idonei semmai a determinare inizialmente un aumento della pressione fiscale e non una sua riduzione; la sottolineatura di come l’Italia non poteva considerarsi più al riparo dei cosiddetti “PIGS”, perché, pur avendo un deficit sensibilmente inferiore nel drammatico 2009, aveva caratteristiche strutturali di debito pubblico e di pressione fiscale tali da lasciarla con meno carte da giocare per, da un lato, ripartire e, dall’altro, far quadrare i conti.

Il fatto che i commercialisti italiani arrivino su questi temi con largo anticipo rispetto al mondo delle imprese non stupisce. Non è solo un fatto di competenza in materia di Fisco e di sostenibilità economico-finanziaria dei conti, è anche un fatto di serenità di giudizio e indipendenza nelle valutazioni. Si parla da tecnici e si racconta ciò che, con capacità tecnica, si osserva, scevri da condizionamenti e timori di strumentalizzazioni. È quello che, grazie anche al contributo qualificato di tanti lettori, i commercialisti italiani stanno facendo quotidianamente, più o meno dallo stesso periodo, sulle pagine telematiche di questo quotidiano.
Dopodiché, è chiaro che la potenza del megafono cambia la risonanza delle cose che vengono dette e tocca magari vedersi rilanciate come innovative considerazioni e proposte già lanciate mesi e mesi prima.

Non è però questo ciò che deve più di tanto interessare: quello che conta è che le idee comincino a girare, e alla fine contaminino i ragionamenti e le posizioni di chi ha in mano quei megafoni che i commercialisti e, in senso più ampio, tutti gli appartenenti al mondo delle professioni non possono certo, ancora oggi, dire di avere. In fondo, anche a livello individuale, il ruolo del professionista non è dissimile: è lui che studia i problemi e getta le basi per la stesura del contratto, ma è il cliente quello che poi lo firma.

Ciò nondimeno, in questa particolarissima e drammatica fase, è corretto rammaricarsi per l’occasione perduta dalle imprese per il mancato coinvolgimento formale nella sottoscrizione del documento anche di sigle legate al mondo delle libere professioni. Un coinvolgimento che sarebbe stato possibile anche grazie alle proposte contenute nel documento in materia di professioni che, seppur bisognose di qualche limatura, si dimostrano lontane anni luce dagli aggressivi fanatismi ideologici che avevano caratterizzato alcune prese di posizione estive del mondo delle imprese.

Forse non avrebbero aderito rappresentanze di tutte le libere professioni, ma molto probabilmente lo avrebbero fatto quantomeno le professioni, come quella dei commercialisti, che si battono con determinazione solo per difendere la propria identità e non anche per rifuggire da logiche di libero mercato che già da anni costituiscono il loro scenario operativo quotidiano di riferimento. Sarebbe stata anche l’occasione per fare un po’ di chiarezza, una volta per tutte, su quali siano le professioni che la vedono in un certo modo e quali quelle che la vedono in un altro.

Ancor di più, però, sarebbe stata l’occasione per lanciare alla politica e al sottobosco dell’alta dirigenza del pubblico e del para-Stato un segnale molto forte da parte non soltanto della spina dorsale dell’economia del Paese, ossia le imprese, ma dall’intero arco dei produttori di beni e servizi e di ricchezza privata, nell’ambito del quale, a fianco delle imprese, non possono certo dimenticarsi il milione e passa di liberi professionisti.

Difficile pensare di riuscire a cambiare questo Paese, se i principali attori della sua società civile, quali le imprese sono, non capiscono che bisogna andare oltre quelle tradizionali divisioni macrocategoriali e quegli approcci relazionali che, consolidatisi sino ad oggi, ci hanno portato sul ciglio del baratro su cui ci troviamo.
Non che di tempo e occasioni ne restino molte, ma, se comprendiamo infine che questa è stata perduta, forse riusciremo a rimediare tutti insieme alla prossima.

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