La «spending review» rischia di essere l’ennesima illusione
Negli ultimi tempi, “spending review” è la parola magica sulla bocca di tutti. Qualcuno dice che contribuirà a raggiungere l’azzeramento del deficit di bilancio. Per qualcun altro, servirà a finanziare le grandi opere, anche se nell’opinione di molti e nell’interesse di tutti potrebbe servire ad evitare l’ulteriore aumento dell’IVA, dal 21 al 23%.
Avendo la spesa pubblica raggiunto gli 820 miliardi, cioè quasi il 52% del PIL e oltre 13.500 euro a testa per ciascun italiano, per uno scopo o per l’altro, è indispensabile metterci mano. Analizzando le uscite annuali, vediamo che 87 miliardi se ne vanno per pagare gli interessi sul debito pubblico. Meno della metà del totale in pensioni e sussidi ai bisognosi. Resta l’altra parte, più della metà, circa il 24% del PIL, che è composta da spese fisse: stipendi e acquisti. E sappiamo bene che la spesa per investimenti – ormai ridotta a 36 miliardi, meno della metà di quanto paghiamo annualmente di interessi – è praticamente nulla, disossata dagli unici tagli che i precedenti Governi sono stati in grado di fare. Ergo, l’unica vera riduzione di spesa si deve fare sui costi fissi: bisogna aggredire le componenti strutturali della spesa e non solo i suoi aspetti patologici.
Invece, finora si è fatto il solito elenco degli sperperi, che vanno cancellati, ma certo non consentono risparmi significativi. I tecnici al Governo sono in possesso di comprovata esperienza relativamente alla spesa pubblica, ma non basta. Qui siamo di fronte al gioco dell’oca, o al Monopoli se si preferisce, dove si passa sempre dal “via”: i cittadini delegano i politici, che chiamano i tecnici, che chiamano i “supertecnici”, o commissari, che poi girano di nuovo la domanda (“segnalateci gli sprechi e le inefficienze”) ai cittadini sul web. Risultato? La spesa continua ad aumentare.
Sembra una barzelletta, eppure l’entrata in scena del “tecnico dei tecnici”, il deus ex machina Enrico Bondi, è cosa vera. Il suo curriculum manageriale parla chiaro: Montedison, Olivetti, Telecom, Sai, Lucchini. E Parmalat. Ovunque è andato, ha risanato aziende importanti da situazioni gravissime, anche se su di lui non tutti i giudizi convergono. Ora Bondi deve dimostrare di saper tagliare la spesa pubblica, ma per portarla dal 52% del PIL, qual è ora, ad un livello europeo – diciamo al 45%, sette punti in meno – non potrà puntare solo sugli sprechi che tanto fanno arrabbiare gli italiani, ma che poco contribuiscono a formare i grandi numeri. Sarà necessario attaccare le maggiori voci della spesa corrente, dalla sanità alla Pubblica Amministrazione.
Roba da impallidire. Tanto più per chi, come Bondi, lo Stato non lo conosce affatto. I suoi trascorsi professionali saranno anche eccellenti, ma non in linea con il compito che Monti gli ha dato: lo Stato non è un’azienda e la spesa pubblica non ha nulla a che vedere con il bilancio societario. E soprattutto, a dire l’ultima parola sarà comunque la politica, rappresentata da quei partiti che non sono stati in grado, o non hanno mai avuto intenzione, di tagliare la spesa riformando la macchina statale. Né è credibile che Bondi possa cambiare le cose da qui a settembre.
Luigi Einaudi diceva: “Conoscere per deliberare”. La spending review appartiene al “conoscere”, poi serve “deliberare”. Sappiamo già benissimo che si spende troppo e male. Il problema è che proprio il “deliberare” sarà poi nuovamente soggetto al vaglio della politica, che, salvo improbabili resipiscenze, impedirà qualunque intervento serio e strutturale. E l’unica soluzione percorribile saranno i disastrosi tagli lineari, perché quando in un gruppo non si identifica il colpevole, la regola è punire tutti, indistintamente.
La Bce suggerisce di accorpare le Province. Ricetta monca: è l’intera architettura del decentramento istituzionale che va rivista, perché elefantiaca, burocratica, produttrice di diritti di veto paralizzanti, e non solo perché costosa. E se l’obiettivo è renderla snella e produttiva, ecco che la sua radicale semplificazione diventa lo strumento. Come? Creando 6-7 macro-Regioni, della stessa dimensione dei lander tedeschi, abolendo le inutili Province, costringendo ad accorparsi i Comuni sotto i 5mila abitanti (sono il 70%, cioè 5.664 su 8.092, e raccolgono solo il 17% della popolazione), sfoltendo le decine di soggetti di terzo e quarto grado, dalle Comunità montane agli enti di bacino.
Sarebbe comunque un buon inizio evitare di suggerire interventi lineari. Eppure, quando si legge nel DEF che le spese dei Ministeri diminuiranno di 13 miliardi tra il 2012 e il 2013 passando da 352 a 339 miliardi, non si ha l’impressione di un cambiamento significativo delle politiche fin qui attuate. L’approccio va rovesciato: non bisogna fare contenimento della spesa per ragioni di bilancio, ma attuare riforme strutturali per rendere più efficiente la macchina dello Stato e privatizzare l’erogazione di alcuni servizi, per poi ottenere anche vantaggi di finanza pubblica. Così facendo, si ridisegnerebbe in modo moderno la burocrazia centrale e periferica, risparmiando a regime oltre un centinaio di miliardi. Altro che i 13 miliardi previsti dal DEF o i 25 che pare siano l’obiettivo di Monti.
O la spending review è questo, o sarà l’ennesima illusione che avremo creato a danno di noi stessi. La speranza c’è e ci deve essere, l’importante è che non sia l’unica a sopravvivere. Magari solo una “speranza tecnica”. (twitter @ecisnetto)
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